lunedì 22 giugno 2009

LA FIAT NELLA CRISI DELL’AUTO


La crisi economica mondiale del capitalismo che coinvolge tutti i paesi del mondo e che, nella sola Europa, ha già distrutto due milioni di posti di lavoro, si presenta in forme particolarmente acute nel comparto produttivo dell’auto. Esiste una enorme capacità produttiva delle case di automobili (si possono produrre più di 90 milioni di autoveicoli ogni anno, di fronte a prospettive di vendita che oscillano intorno alla metà o al massimo a due terzi, come confermato dallo stesso Marchionne nel recente incontro coi sindacati) dentro il contesto di una crisi economica che è destinata a prolungarsi nel tempo e che incrocia un'altra crisi che ha un impatto immediato su questo settore di produzione, cioè la crisi ambientale.

La risposta padronale alla crisi di sovrapproduzione
La crisi di sovrapproduzione in questo comparto industriale è dunque macroscopica e comporta una acutissima concorrenza tra le diverse case produttrici; siamo alla vigilia di un gigantesco processo di riorganizzazione del settore, alla “madre” di tutte le ristrutturazioni i cui costi in termini di occupazione, diritti, salario dovrebbero essere pagati dal lavoratori per garantire il rilancio dei profitti dei padroni. Le grandi manovre di Marchionne, in America, Germania e Sud America e l’accordo infine raggiunto tra la Fiat e la Chrysler con il beneplacito e l’intervento del governo americano si inseriscono in questo difficile e pericoloso scenario per le lavoratrici e per i lavoratori.
Il problema di Marchionne e dei suoi consimili è relativamente semplice nei suoi elementi costitutivi: deve cercare di sopravvivere operando una forte ristrutturazione, accorpando o accorpandosi con altre case, riducendo gli stabilimenti (possibilmente con la scomparsa di qualche concorrente); deve quindi liberarsi di una parte dei lavoratori, facendo lavorare a ritmi più intensi quelli che rimangono; esattamente quello che ha imposto ai lavoratori della Crysler negli USA prendendoli per la gola con il sostegno della Casa Bianca. E Obama ha ripetuto l’operazione con la nazionalizzazione della General Motors. Gli obbiettivi sono: aumentare ancora la produttività, guadagnare quote di mercato e quindi garantire profitti e dividendi più alti agli azionisti. E le partite Chrysler e GM si sono concluse con una pesante sconfitta del movimento sindacale e dei lavoratori.

La crisi americana
I crolli di vendite dei veicoli hanno coinvolto tutte quante le case automobilistiche, ma hanno prodotto un vero rapido terremoto per quanto riguarda due delle tre grandi compagnie americane, General Motors e Chrysler; anche la Ford è stata fortemente colpita, ma ha retto meglio delle altre due che sono finite in bancarotta.
La debolezza delle compagnie americane rispetto ad altre concorrenti è spiegata da una serie di fattori. In primo luogo l’enorme peso che grava sui bilanci di queste compagnie la previdenza e la sanità aziendale: quella che era un punto di forza e di controllo dei lavoratori, alla lunga si è rivelato un boomerang che ha messo in ginocchio i bilanci dell’aziende. Nessuna azienda può prevedere quale possa essere il costo a distanza di 30 o 40 anni di questi servizi sociali fondamentali che possono essere garantiti durevolmente solo collettivamente dalle strutture pubbliche. Un secondo elemento sono le tipologie di vetture prodotte, soprattutto veicoli di grande cilindrata e di grandi consumi energetici, favoriti anche dal basso costo della benzina negli Usa. Negli USA su 100 vetture solo 15 erano della gamma medio bassa, mentre in Europa il rapporto è di 60 a 100. Queste tipologie di produzione sono state vincenti per tutta una fase perché garantivano fortissimi profitti per ogni vettura venduta, ma nel momento dell’esplodere della crisi più acuta e dell’emergenza ambientale, il crollo verticale di questo segmento di mercato, ha determinato il fallimento di General Motor e Chrysler, cioè di due pilastri della storia del capitalismo americano.
Messi da parte l’ideologia e il verbo liberista, il governo americano è intervenuto in modo massiccio come aveva già fatto per le banche e le assicurazioni, di fatto nazionalizzando la General Motors e acquisendo una partecipazione decisiva anche nella Chrysler.
La nuova struttura della nuova General Motors, dopo la presentazione dei libri contabili alla corte fallimentare (172,81 miliardi di dollari di debito, a fronte di appena 82,29 miliardi di attività patrimoniali) e l’applicazione dell’art. 11, (grosso modo una procedura di fallimento controllato), è la seguente: il tesoro americano avrà circa il 60% delle azioni e tira fuori complessivamente 50 miliardi di dollari. Quello canadese e dello stato dell’Ontario si divideranno il 12% delle azioni e sborsano altri 12, 2 miliardi di dollari. Il 10% viene attribuito agli obbligazionisti, che naturalmente hanno perso gran parte del loro passato investimento; per gli azionisti è andato anche peggio se si tiene conto che le azioni che valevano 94,63 dollari nel 2000 sono scese a meno di un dollaro e il titolo è stato estromesso dall’indice Dow Jones. Il 17% infine andrà al sindacato in cambio di importanti concessioni: la riduzione del 55% del fondo sanitario e pensionistico, salari assai più bassi, sussidi di disoccupazione ridotti che non supereranno la durata di un anno, per i nuovi assunti il salario sarà di soli 14 dollari l’ora contro i 28 finora erogati agli operai che pagheranno maggiori contributi per prestazioni sanitarie ridotte. La produzione di autovetture scenderà del 30-40% con auto più piccole e con la chiusura di 17 impianti.
Presi alla gola i lavoratori hanno dovuto accettare questo patto leonino.
Per questa via saltano i diritti conquistati dai lavoratori delle tre big negli anni di maggior potere contrattuale e le loro condizioni vengono equiparate ai nuovi stabilimenti del Sud degli Usa dove si sono insediate le case estere e dove salari e diritti sono considerevolmente inferiori.. Ma questo obbiettivo di equiparazione al ribasso era esattamente uno degli obbiettivi padronali e del governo.

Le mosse di Marchionne
La Fiat , pur conoscendo anch’essa un forte calo delle vendite è venuta a trovarsi in una situazione particolare che ha permesso a Marchionne di muoversi spregiudicatamente nella consapevolezza, più volte rimarcata dall’AD del Lingotto che al termine della grande ristrutturazione potrebbero rimanere sul mercato solo 5 o 6 aziende e che per reggere bisogna produrre 6 milioni di vetture all’anno.
Naturalmente la Fiat non è una azienda che possa acquistare strutture assai più grandi di essa, ma, nel quadro di una grave crisi, sfruttando alcuni suoi successi tecnologici e settori di produzione nel comparto delle vetture medie piccole, su cui ha una esperienza e know-how innegabili, può sperare di giocare un ruolo importante. Ecco dunque il disegno di Marchionne: acquisire la Chrysler, come primo passo per costruire una struttura molto più grande, di essere partecipe della formazione di una grande compagnia, di cui la Fiat auto sarebbe soltanto un pezzo, separando questo settore dal resto del Gruppo Fiat. E’ chiaro che in questo caso la famiglia Agnelli non disporrebbe più di un ruolo egemone, ma avrebbe soltanto più per il 10%, una quota significativa, ma assai minoritaria di un nuovo colosso mondiale dell'auto. In questa partita Marchionne può sperare di giocare un ruolo personale centrale, diventando, per ora l’AD della Chrysler.
Per altro questo è il problema che hanno tutte le famiglie che controllano alcune delle case automobilistiche. Vale per la famiglia Peugeot dell’omonimo gruppo, per la famiglia Toyoda della stessa Toyota, oggi diventata il primo produttore mondiale.

Chi ha pagato il fallimento della Chrysler
Solo che a salvare la Chrysler, non sono stati Marchionne e la Fiat che non hanno messo un soldo; chi ha messo i miliardi sono stati il governo americano, prima di tutto, le banche creditrici e gli altri creditori e, soprattutto i poveri operai e sindacati che hanno accettato una drastica riduzione del salario, del diritto di sciopero, delle pensioni e che rischiano ancora di più per il futuro essendo entrati in un pacchetto azionario, il cui valore è per lo meno dubbio. La Fiat non ha messo un soldo, mentre il governo americano sborsa subito 6,6 miliardi di dollari, ma qualcuno pensa che in realtà arriverà in futuro a oltre 20 miliardi. Anche i creditori pagano un duro prezzo: messi di fronte a una liquidazione che non avrebbe dato loro quasi nulla, dopo un lungo tira e molla e il ricorso di alcuni alla Corte Suprema, hanno dovuto accontentarsi di due miliardi di dollari in cambio dei 6,9 miliardi di crediti da loro vantati.
Di fronte a questo scenario alcuni commentatori hanno definito la Fiat un “fondo locusta”, cioè un fondo di “private equity” specializzato in attività di crisi. Su La Repubblica del 9 maggio si poteva infatti leggere che la Fiat “Punta su aziende sull’orlo del baratro per negoziare duro concessioni da creditori e dipendenti, rilevare le attività con capitali zero, finanziare la ristrutturazione con la leva fornita da altri, accorpare il tutto e collocarlo in borsa per sfruttare l’entusiasmo di mercato per le scommesse. Se va bene profitti favolosi, se va male i soldi sono degli altri”.
A conclusione dell’operazione la Fiat detiene il 20% delle azioni che potranno salire fino al 35% e arrivare fino al 51% nel caso, e quando si restituissero tutti i prestiti governativi. Il sindacato United Auto Workers con il suo fondo sanitario per i pensionati detiene oggi il 55% delle azioni (da brivido per il futuro dei lavoratori) e poi ci sono due quote di minoranza dirette per il governo statunitense (8%) e canadese (2%). La fusione determina la formazione del 6° gruppo mondiale con vendite complessive (potenziali) di 4,5 milioni di auto all’anno. Sempre che l’operazione funzioni, perché per risanare la Chrysler, occorre che per un po’ di tempo si continui a vendere le grosse cilindrate e i Suv, in attesa che entrino sul mercato le nuove vetture più piccole, stile Fiat, che però daranno un profitto unitario assai inferiore. E tutti gli analisti pensano che la Chrysler continuerà a bruciare cassa almeno fino al 20012.

La campagna germanica
Marchionne ha provato a portare avanti il suo obbiettivo di costruire un nuovo colosso dell’auto con la Opel, sperando anche in questo caso di fare acquisti, giocando alla grande, senza metterci un soldo, ma puntando anche in questo caso sull'intervento e sui soldi del governo tedesco intenzionato a salvare questa azienda.
Ma la partita qui si è rivelato assai più difficile per diversi motivi: in primo luogo perché le ristrutturazioni e i licenziamenti imposti dalla Fiat erano veramente troppi e insopportabili non solo per i sindacati, ma anche per il governo tedesco; in secondo luogo perché l’esborso di denaro pubblico richiesto dalla Fiat, di alcuni miliardi, era ancor meno accettabile. Perché i tedeschi avrebbero dovuto mettere tanti soldi per rafforzare un costruendo un colosso auto concorrente con la WW e la Porche? Ma anche la General Motors e il governo americano, nel frattempo diventatone proprietario, non potevano avere alcun interesse a favorire il progetto di Marchionne, cioè la formazione di un concorrente troppo pericoloso E anche la trattativa tra governo tedesco da una parte e Opel/General Mortor e governo americano dall’altro in relazione alla vendita alla Magna è stata molto dura; ognuno a cercare di proteggere i propri interessi capitalistici, a non tirare fuori troppi soldi e per la GM anche a mantenere il controllo di tecnologie. Come è noto alla fine la Opel è stata venduta alla azienda austro-canadese Magna, in cordata con la banca Sberbank e la casa automobilistica Gaz, entrambe russe. Il governo tedesco ci mette 1,5 miliardi di euro insieme ai 4 lander che ospitano gli stabilimenti; ma è solo l’inizio; i lavoratori ci mettono 11.000 licenziamenti di cui 2.600 in Germania su 55.000 occupati, cioè il 20%. Ma tutte le clausole non sono state ancora definite e rimangono parecchi punti interrogativi su cui qualcuno in Italia continua a sperare. Il risultato per ora è che i soci Opel saranno così suddivisi; il 35% resta alla GM, i dipendenti si accollano il 10%, la Magna il 20% e la Sberbank il 35%.
Marchionne ha dovuto ammettere che:“l’emergenza della situazione non può forzare Fiat ad assumere rischi del tutto inusuali: Di più non ci può essere richiesto” . Per forza, non voleva sborsare nulla.
Anche un altro obbiettivo secondario della Fiat di cui si era parlato, l’acquisizione della Saab, azienda che produce vetture di alto livello e le cui vendite erano precipitate, obbligando la GM a disfarsene, non è andato in porto. La Saab è stata infine venduta a un piccolo produttore di vetture sportive svedese, anche in questo caso, guarda caso, grazie a un generoso intervento dello stato svedese, la cui entità per altro non è stata precisata.

Dove sta la Fiat
La sconfitta subita in Germania e lo stallo dei tentativi operati in America latina, mettono a nudo le difficoltà della Fiat dopo centinaia di articoli agiografici comparsi sui giornali italiani, come nei fatti è infine emerso nell’incontro tra Fiat, sindacati e governo.
Lo stesso accordo con la Chrysler, sul piano produttivo, non risolve i problemi specifici della Fiat, che non potrà mai utilizzarne appieno l’enorme capacità produttiva e questo spiega la grande ritrosia dei dirigenti Fiat in tutti questi mesi, mentre si assisteva alle gesta di Marchionne, a rendere conto ai sindacati dei loro progetti concreti a partire dall’Italia. Ci sono dati che non sono circolati in queste settimane dove vengono segnalati come vittorie i minori arretramenti della vendite Fiat rispetto a altri concorrenti. Per esempio che la Fiat l’anno scorso ha bruciato 6 miliardi di cassa (altri 400 milioni nel primo trimestre) e che ha 23 miliardi di debiti lordi, come ha ricordato un mese fa un ministro tedesco, di cui 10 devono essere rifinanziati quest’anno.
La Fiat resta in mezzo al guado, e la relazione di Marchionne ai sindacato e al governo, ha evidenziato tutte le indeterminatezze del suo piano e quindi la grande incertezza sul futuro degli stabilimenti italiani, dove però una cosa già è certa: Termini scomparirà come stabilimento produttore di auto. Così come è certa il fatto che il mercato europeo è in flessione da 13 mesi e che per il 2009 si prevede un segno negativo del 10% con un utilizzo delle capacità produttive appena del 65%.
Ecco quello che Marchionne chiama “sovracapacità produttiva cronica” che “necessita di razionalizzazione”. E’ facile capire che prima o poi sarà proposto ai lavoratori Fiat una cura da cavallo come quella imposta ai lavoratori americani. O anche più.
Da subito l’AD della Fiat chiede altri soldi al governo e allo stato italiano e ai sindacati di essere docili, cioè subalterni, evitando “i conflitti ingiustificati”, cioè di rinunciare spontaneamente allo sciopero.

Dove sta il capitalismo europeo?
Queste vicende permettono due considerazioni. Si conferma che nella logica del capitalismo, l’intervento e una forte spesa pubblica dello stato sono possibili se servono agli interessi dei padroni, non sono possibili se servono a garantire pensioni e salari decenti. Obama si è dichiarato un “azionista riluttante” nella vicenda GM, cioè obbligato dalle circostanze, e dentro la finalità di restituire rapidamente ai privati la proprietà delle aziende una volta risanate. Seconda considerazione: ogni stato protegge i suoi attori nazionali, e, per quanto riguarda l’Europa, si evidenzia la difficoltà ancora una volta alla nascita di un capitalismo europeo cioè la formazione di grandi aziende multinazionali europee, prodotte dalla fusione di soggetti europei. Il Sole-24 ore ha commentato: “E’ più facile realizzare alleanze e fusioni transcontinentali che unire due costruttori europei sotto lo stesso tetto”. Per altro questa realtà ha avuto la sua espressione politica, economica e anche plastica massime, nell’incapacità della Comunità Europea di stabilire un piano comune europeo contro la crisi.

E i lavoratori…
In questa situazione la partita decisiva tra padroni e lavoratori si gioca intorno alla capacità o meno dei lavoratori di essere spettatori passivi e subalterni ai propri padroni e alla contrapposizione tra l’unità e la divisione. L'arma micidiale che viene ovviamente usata dai padroni è la divisione degli operai tra uno stabilimento e l'altro, di puntare sulle frontiere nazionali e sulla mancanza di una solidarietà che superi queste barriere per far credere che il nemico o per lo meno il concorrente da battere siano gli operai, polacchi, o quelli tedeschi. o anche che gli avversari siano direttamente in casa: meglio che affoghino gli operai di Termini Imerese o quelli di Pomigliano piuttosto che quelli di Torino. Naturalmente il ragionamento “speriamo che io me la cavo” porta direttamente alla catastrofe di tutti.
Per rimanere in Italia, anche dopo la manifestazione nazionale del 16 maggio, la Fiat si ritiene infatti abbastanza forte per cercare di fare tutto quello che vuole: per esempio, far lavorare su due turni il sabato qualche limitato settore di lavoratori, tenendone in cassa integrazione per lunghe settimane migliaia di altri; di introdurre provocatoriamente ritmi e carichi di lavoro più intensi, contro cui si è già scioperato in alcuni reparti di Mirafiori.
La manifestazione nazionale della Fiat è stata una prima parziale, ma importantissima risposta dei lavoratori per difendersi dai processi di ristrutturazione in corso nella multinazionale dell'auto; processi di cui i lavoratori intuiscono la dimensione strutturale, ma non ancora tutte le scelte definitive e concrete, compresa la localizzazione dei diversi interventi.
Non era facile dopo mesi di cassa integrazione, di redditi sempre più ridotti, e in un contesto di crisi che attanaglia centinaia di fabbriche, con lotte sparse e isolate, senza che finora sia apparsa una proposta di lotta e di riunificazione del movimento, scendere in migliaia per le strade e tornare ad essere protagonisti. Non a caso, soprattutto a Torino i dubbi sulla dimensione della partecipazione nei giorni precedenti erano forti: proprio per questo i militanti sindacali della sinistra avevano moltiplicato gli sforzi e le iniziative di coinvolgimento dei lavoratori e delle lavoratrici.
Non c'è dubbio che le reazioni sindacali sono state non solo tardive, ma anche inadeguate, compresa l’assoluta incapacità di concepire un rapporto e una iniziativa a livello europeo; l’incontro coi sindacati tedeschi è stata una iniziativa giunta tardi e del tutto episodica senza alcuna conseguenza operativa pratica.
Per comprendere tutte le difficoltà della partita, alle incapacità o non volontà di reazione di alcune organizzazioni sindacali si aggiunge lo stato della lotta di classe, cioè la condizione politica dei lavoratori, assai disorientati e stressati dalle condizioni materiali e dalle incertezze delle prospettive.
Tuttavia col passare dei giorni, era andata crescendo sia al Sud che al Nord la consapevolezza dei rischi estremi che si corrono e della necessità di una risposta forte e unitaria dei lavoratori. Al Sud, dove tutti percepiscono i margini ridottissimi di sopravvivenza è montata una rabbia forte con la volontà di vendere cara la pelle. A Mirafiori la consapevolezza della posta in gioco si era manifestata nella partecipazione alle assemblee e nel rigetto degli straordinari.
Di qui la riuscita della manifestazione e la volontà di reggere la sfida con lo strumento dell'unità espressa nel vecchio slogan, ma sempre valido “Nord Sud uniti nella lotta”. La manifestazione ha dunque messo in luce:
questa volontà unitaria e la ricerca di risposte comuni;
la forte determinazione degli operai del sud,
un certo impatto sulla pubblica opinione,
un rapporto abbastanza aperto tra le varie appartenenze sindacali, in particolare tra settori della Fiom e i lavoratori del SDL, assai presenti nella manifestazione. Stiamo cioè parlando dei settori di sinistra delle organizzazioni sindacali.
La conclusione della manifestazione con l’improvvida forzatura dello Slai cobas, di cui i segretario della FIOM è stato vittima, pur creando divisioni e contrapposizioni settarie di cui certo non c’è bisogno e dando possibilità alla stampa di costruire una notizia amplificata che svalutava la riuscita della manifestazione, non è stata tale, tuttavia, da comprimere le potenzialità messe in campo quel giorno.
Deve piuttosto spingere alla costruzione dell’unità e della democrazia sindacale ed operaia, del riconoscimento di tutte le forze in campo e del diritto alla parola di tutti per poter reggere la sfida padronale. Sfida che si presenta particolarmente ardua, a partire dal principale stabilimento, Mirafiori, dove le elezioni delle RSU hanno evidenziato, parecchie difficoltà (con qualche parziale risultato positivo) e la capacità d’intervento della direzione aziendale.

Interrogativi pesanti
Ma il secondo elemento presente nella manifestazione ed oggi ancor più importante era l'interrogativo: come si va avanti? Cosa vogliono fare i dirigenti sindacali? Quale impegno per costruire una vera lotta fino in fondo?
Una parte dei dirigenti sindacali poco tempo fa ha firmato un accordo con governo e padroni che riduce il movimento sindacale a complice dello sfruttamento dei lavoratori. La FIOM, sa bene quale sia la posta in gioco e non c'è dubbio che voglia costruire una vera risposta, ma sappiamo anche quali siano i condizionamenti interni alla CGIL ed esterni, e soprattutto quali siano le difficoltà obbiettive. Deve essere tuttavia chiaro a tutti che senza il ruolo e l'impegno della più forte organizzazione sindacale dei metalmeccanici, il cui segretario ha ribadito più volte la determinazione a non far chiudere nessun stabilimento, la partita vera non comincia nemmeno. Questi interrogativi si sono aggravati, perché dopo la manifestazione non c’è stata alcuna ulteriore mobilitazione e ancor meno un movimento verso quello sciopero generale, tanto più necessario in un contesto in cui la cassa integrazione dilaga e ormai una serie di aziende stanno per superare il tetto delle 52 settimane con impatto dirompente sulla condizione e sul reddito dei lavoratori, come la stessa CGIL ha denunciato.

Come rispondere? Come andare avanti?
Mi pare che ci troviamo di fronte a due ordini di problemi.
Il primo è il problema dell'unità, dell'unità certo delle lavoratrici e dei lavoratori italiani, ma la partita della Fiat e più in generale la partita dell'auto si gioca a livello europeo e su scala internazionale; la sola unità in Italia non è sufficiente, perché può essere innestata la contrapposizione nazionalista, l'appiattimento sui propri governi, tutte condizioni che darebbero ancora una volta la possibilità di Marchionne di manovrare. Oggi occorre costruire una iniziativa sindacale unitaria attraverso le frontiere; ne è tempo, è nelle necessità obbiettive imprescindibili; le sinistre sindacali devono farsene carico, devono impegnarsi a fondo per costruire le interlocuzioni necessarie, ben sapendo che oltre frontiera ci sono le stesse remore e gli stessi limiti di orientamento.
Serve effettivamente una vertenza europea dell'auto, una azione unitaria per impedire che la grande ristrutturazione, travolga uno dei punti di forza del movimento operaio europeo, in altri termini che la crisi la paghino fino in fondo i lavoratori e sia usata per una modifica radicale dei rapporti di forza e della stessa struttura sindacale del movimento operaio europeo.
Ma la questione della vertenza tira in ballo la piattaforma rivendicativa e gli obbiettivi su cui è possibile difendere il lavoro e l'occupazione.
La piattaforma dei sindacati italiani, conquista del tavolo di trattativa, maggiore copertura salariale per i lavoratori in cassa integrazione, piano industriale e difesa di tutti gli stabilimenti, è inadeguata, non perché questi elementi non siano giusti, ma perché non sono in alcun modo sufficienti per reggere la sfida della crisi di sovrapproduzione.
Mantenendo solo quegli obbiettivi si può già immaginare che si andrà a un certo punto nella stretta dell'imbuto.
I padroni infatti non potranno mantenere gli stessi livelli di produzione del passato, diranno: “non possiamo vendere tante macchine”, neanche se una parte di queste diventano “ecologiche”; quindi inevitabilmente si comincerà a discutere di quale sacrifici fare, di quanta manodopera ridurre, di quali stabilimenti chiudere, si discuterà di ammortizzatori sociali, governi e enti locali saranno chiamati a intervenire su questo terreno, ecc. ecc. un film già visto. A pagare sarà quindi il lavoro e non i profitti
Se i padroni pensano di risolvere il problema della sovrapproduzione, facendo scomparire qualche concorrente, riducendo drasticamente il numero dei lavoratori, diminuendo la produzione, ma aumentando la produttività, e i profitti, l'obbiettivo dei lavoratori deve essere opposto.
Tenere tutti al lavoro, ridurre le produzioni, riconvertirne alcune, ridurre i profitti, in altri termini lottare perché nel settore auto ci sia una riduzione dell'orario a 35 ore o anche a 32 a parità di salario.
Far pagare quindi i padroni e non il lavoro.
Non è facile costruire questa alternativa, ma non è possibile una soluzione che salvi il lavoro e i profitti. Questa terza soluzione non è data, e i prezzi pagati dai lavoratori nelle vicende della Chrysler, di General Motors e anche della Opel lo confermano.
Sono passati in Italia 40 anni dall'ultima significativa riduzione di orario. La produttività è fortemente aumentata e ristrutturazione dopo ristrutturazione il movimento dei lavoratori ha conosciuto arretramenti e sconfitte; il fatto che la battaglia di Rifondazione negli anni '90 per la riduzione dell'orario, mal condotta, sia finita male, non significa che il movimento sindacale e dei lavoratori non debba riappropriarsene e farla diventare la battaglia del Piave, la battaglia per imporre che la crisi la paghi chi la prodotta, i sistema capitalista e i padroni
Infine c’è il problema dello stato dell’intervento pubblico. Abbiamo visto nei tre casi esaminati, come questo abbia mosso risorse enormi dentro una ipotesi che però non a niente a che vedere con le vecchie politiche keynesiane. L’intervento dello stato è concepito come strumento per rimettere in ordine i conti, socializzando le perdite, far ricomparire profitti e quindi ridare nelle mani dei privati la gestione delle aziende.
Nessun progetto complessivo di salvaguardia dell’occupazione, di difesa degli equilibri sociali dei territori e tanto meno un piano di riconversioni produttive, che evidentemente si rendono necessarie e che devono essere funzionali a salvaguardare l’ambiente e i posti di lavoro. In altri termini, pronto soccorso davanti ai disastri del mercato, che deve però restare al centro dell’economia. Serve proprio il contrario, un intervento duraturo e razionale dell’intervento pubblico, combinato a un ruolo di controllo da parte dei lavoratori nella costruzione di un progetto realmente funzionale al benessere delle lavoratrici, dei lavoratori e dei cittadini.

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