domenica 25 dicembre 2011

LICENZIATI AD ALTA VELOCITA’…


Licenziati ad alta velocità…
tra tutti coloro a cui va il nostri auguri per l’Anno 2012
un augurio speciale vogliamo farlo a Emanuela e a tutte e tutti i lavoratori che a Torino e a Milano sono stati licenziati ad alta velocità……..centinaia di posti di lavoro e insieme un servizio per migliaia di famiglie cancellato.
Il collettivo di Medea ha raccolto la loro voce e vi
segnaliamo testo e intervista.

Dopo aver accompagnato i viaggiatori di tutta Italia, dal nord al sud, la Wagon Lits chiude dopo 135 anni e licenzia più di 800 lavoratori e lavoratrici. 65 di loro lavoravano a Torino e dall’11 dicembre sono senza lavoro.

Spariscono centinaia di posti di lavoro e insieme un servizio popolare ed utile a migliaia di famiglie e persone residenti al nord che fino a ieri potevano raggiungere il sud a costi contenuti. Un servizio cosiddetto “universale”, pagato dallo Stato e quindi dalle tasse di tutte e tutti che dovrebbe essere garantito al di là dei profitti e dei guadagni che procura all’azienda Trenitalia.

Per le tratte di lunga percorrenza resta quasi esclusivamente l’alta velocità, imposta a prezzi salatissimi per chi viaggia con la scomodità di dover effettuare, per arrivare per esempio da Torino o Milano fino in Calabria, ad almeno tre trasbordi e cambi.

Abbiamo intervistato Emanuela in presidio alla stazione di Porta Nuova, lavoratrice licenziata che passerà le feste accampata in tenda con gli altri colleghi e colleghe.

lunedì 19 dicembre 2011

Articolo 18, dieci anni di attacchi


La prima offensiva contro lo Statuto inizia nel 2001 con il "patto di Parma" tra Berlusconi e Confindustria. Ma la Cgil resiste. Dove non è riuscito il Cavaliere riusciranno i Professori?


Salvatore Cannavò
da Il Fatto quotidiano
La bestia nera della destra italiana, e della Confindustria, resta l’articolo 18. La disposizione contenuta nello Statuto dei lavoratori risale al 1970 e la sua incubazione risente del clima del ’68 e del ’69, il vero “autunno caldo” italiano che produsse una corposa legislazione sociale. Curioso che a cercare di scardinare la norma voluta da un socialista riformista come Giacomo Brodolini – ministro del Lavoro nel 1969 ispiratore dello Statuto scritto poi da un altro socialista, Gino Giugni – sia stato sempre un altro sedicente socialista come Maurizio Sacconi, legato a Gianni De Michelis e vicecapogruppo del partito di Craxi a metà degli anni 80. Da ministro del Lavoro nell’ultimo governo Berlusconi, e da sottosegretario allo stesso dicastero nel governo del 2001-2006, Sacconi si è speso a fondo contro quella legge.

L’offensiva contro l’articolo 18 inizia già nel 2001 quando il governo Berlusconi decide di onorare il “patto di Parma” siglato con la Confindustria di Antonio D’Amato, nel marzo del 2001, quando il leader degli industriali chiedeva maggiore “libertà di licenziare”. La protesta sindacale, a eccezione di Cisl e Uil, e immediata e il 23 marzo 2002 la Cgil, guidata dall’allora segretario Sergio Cofferati, promuove in solitaria la più grande manifestazione sindacale della storia italiana con circa 3 milioni di persone al Circo Massimo di Roma.
Quell’articolo, che “ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore” licenziato “senza giusta causa” e che resta una garanzia rispetto a discriminazioni di qualsiasi tipo, viene accusato di irrigidire il mercato del lavoro e di impedire alle imprese di evolvere e crescere. A cercare di smussarlo, limitarlo o imbalsamarlo ci provano anche esponenti del Pd, come il senatore Ichino che vuole sterilizzato in cambio di una maggiore garanzia nelle assunzioni per nuovi lavoratori.

Eppure, quel diritto, riesce a riscuotere un consenso di massa. Nel 2002-2003 Rifondazione comunista si impegna addirittura in un referendum per l’estensione dell’articolo 18 anche alle imprese con meno di 15 dipendenti. L’operazione non riesce, anche per la scelta degli allora Ds, e dello stesso Cofferati, di non partecipare al voto: si recherà alle urne solo il 25 per cento dell’elettorato e il quorum sarà mancato.
L’intera vicenda produce un ripensamento in Confindustria. La linea “dura” di D’Amato viene sconfitta nel 2004 dall’ascesa di Luca Cordero di Montezemolo alla guida degli industriali con il rilancio di una posizione di dialogo con il sindacato e quindi di concertazione. Per lungo tempo di articolo 18 non si parla più.
Ci pensa però Sacconi a riproporre il tema. Il primo tentativo si svolge con il cosiddetto Collegato lavoro, un disegno di legge nel quale viene introdotto l’arbitrato, al posto del processo, per la risoluzione delle cause relative al licenziamento ingiustificato. Sarà il presidente della Repubblica a invitare il Parlamento, che aveva già approvato la norma, a rivederla e prevedere l’arbitrato solo in presenza di una scelta effettiva da parte dei lavoratori.

Intanto, la Confindustria, dopo l’accordo separato del 2009 con Cisl e Uil sulle deroghe contrattuali e gli accordi di secondo livello e dopo lo scontro furibondo che vede opposti la Fiat e la Fiom-Cgil, inizia a tessere un nuovo dialogo con la Cgil di Epifani prima e di Camusso poi. E’ in questa chiave che il 28 giugno 2011 Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, siglano un accordo che affronta i temi della contrattazione e della rappresentanza. Nessun riferimento, però, viene fatto all’articolo 18.
Ci pensa per ancora Sacconi a smuovere le acque inserendo nella manovra estiva –in piena bufera finanziaria con il rischio del “default” che incombe sull’Italia – quell’articolo 8, con il quale si stabilisce che i contratti di lavoro siglati in azienda o a livello territoriale, possono derogare ai contratti nazionali e “alle disposizioni di legge”, quindi anche allo Statuto dei lavoratori. L’unico limite è dato dalla necessità di un accordo con i sindacati “maggioritari” in azienda. Cgil, Cisl e Uil decidono di firmare un’intesa in cui si impegnano a non utilizzare quella norma che, per quanto sterilizzata, verrà approvata dal Parlamento.

Ora si passa all’ultima fase. Il governo ha già detto che dopo la manovra intende porre mano alla “riforma del mercato del lavoro”. Dove non è riuscito compiutamente Berlusconi riuscirà il governo Monti? Nel suo discorso di insediamento l’ex Commissario europeo ha scelto un approccio cauto. Ma ai sindacati non è piaciuta la mancanza di consultazione con cui è stata varata la manovra. Interpellati sull’articolo 18 sono quasi tutti d’accordo nel dire che non si siederanno a un tavolo “per facilitare i licenziamenti”.Non è chiaro, però, cosa succederà se il governo presenterà, come sembra, una riforma complessiva che tenga conto degli ammortizzatori sociali, del welfare, della rappresentanza sindacale (vedi Fiat) e, anche dell’articolo 18. La Fiom, che chiede una modifica dell’articolo 19 dello Statuto, per garantirsi la rappresentanza nelle aziende Fiat, non intende allargare il confronto. La Cgil nemmeno. Certamente, però, la prossima volta non ci saranno i sotterfugi di Sacconi. La prossima volta si discuterà alla luce del sole.

martedì 13 dicembre 2011

La svolta della Fiat


Il contratto siglato nel gruppo della famiglia Agnelli segna un passaggio di fase e apre la strada a una nuova struttura del mercato del lavoro


Salvatore Cannavò
da ilfattoquotidiano.it
Per Sergio Marchionne l’accordo del gruppo Fiat rappresenta “una svolta storica”. Su questo punto ha ragione perché l’intesa conclude quel percorso avviato con il piano Fabbrica Italia e passato attraverso le “battaglie” di Pomigliano, prima e di Mirafiori, poi. Marchionne ottiene l’obiettivo che si era dato quando impose l’accordo separato di Pomigliano e il relativo referendum: avere un contratto speciale, valido solo per i propri stabilimenti, privo delle strettoie che impongono le regole di concertazione a cui è ancora sottoposta la Confindustria dalla quale, non a caso, la Fiat è uscita. Nelle aziende della famiglia Agnelli, il sindacato ha ormai come controparte un industria che ha sedi in tutto il mondo che, come dice il presidente John Elkann, conserva il suo cuore in Italia ma che sempre più ha spostato il cervello negli Stati Uniti. L’intesa siglata, con la collaborazione decisiva dei sindacati, è cucita addosso alle caratteristiche globali dell’azienda Fiat ma soprattutto alla sua politica di sviluppo ed espansione che poggia non tanto sulla capacità di innovazione dei prodotti quanto sulla maggiore flessibilità del lavoro. Nel gruppo Fiat, da gennaio 2012, saranno ridotte le pause, gli straordinari saranno portati da 40 a 120 ore annue, i turni a 18 su sei giorni ma soprattutto saranno introdotte limitazioni per le assenze malattia e sanzioni per chi viola l’accordo stesso. Difficile capire quanto tutto questo possa aiutare a vendere più auto. Il progetto Fabbrica Italia, del resto, è stato messo nel cassetto dopo che la Consob si è azzardata a chiedere maggiori chiarimenti e le prospettive industriali dell’azienda restano nere. Marchionne ha puntato alla produzione di 6 milioni di autovetture nel 2014 ma al momento il gruppo Fiat-Chrysler è fermo a 4 milioni e la recessione deve ancora venire. Nuovi modelli non se ne vedono e gli stabilimenti sono falcidiati dalla cassa integrazione.

Marchionne ottiene, per il momento, soprattutto un risultato politico, l’estromissione della Fiom dalle sue fabbriche. Con il nuovo contratto, che il sindacato di Landini non ha firmato, la Fiom non avrà infatti diritto alle prerogative sindacali stabilite dallo Statuto dei lavoratori: delegati, distacchi, permessi, assemblee, spazio nelle bacheche aziendali e nemmeno la trattenuta sindacale in busta paga. Il sindacato più rappresentativo del gruppo viene di fatto cancellato da un giorno all’altro. Logico, quindi, che Maurizio Landini perli di lesione democratica oltre che di peggioramento delle condizioni dei lavoratori.
La “questione democratica” in effetti si pone in forma evidente. Come è possibile che a Somigliano, Mirafiori e Grugliasco si siano svolti dei referendum e invece gli oltre 80 mila lavoratori del gruppo non possa esprimersi sul contratto? Perché privarli di un voto di ratifica?

L’accordo apre poi un’altra partita nel campo delle relazioni sindacali. Per evitare di essere esclusa dagli stabilimenti Fiat, la Fiom chiede al governo una riforma dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori che regola la rappresentanza sindacale. Secondo tale norma, hanno accesso alla rappresentanza solo i sindacati che siglano gli accordi aziendali nonostante la loro rappresentatività. La Fiom chiede di ripristinare questo aspetto ma la sua richiesta ha già prodotto una ferma reazione della Fiat che non accetterebbe mai una tale riforma. Solo che, allo stesso tempo, il governo vuole rivedere l’intero pacchetto del mercato del lavoro con riforme dell’articolo 18 dello Statuto, una maggiore flessibilità in uscita con la probabile introduzione di un contratto unico di inserimento, un reddito garantito con la riforma degli ammortizzatori sociali. Tutto questo si tiene e la modifica dell’articolo 19 si inserirebbe in questo contesto. La Confindustria sarebbe d'accordo e non è detto che la Cgil e la stessa Fiom non siano disponibili a una discussione complessiva. Da qualsiasi punto lo si guardi, il contratto Fiat apre una nuova stagione di relazioni sindacali e sarà propedeutico a modifiche strutturali del mercato del lavoro.

Siria, la solidarietà e il no alla guerra


Una lettera aperta di Sinistra Critica alla campagna promossa da Peacelink "Siria no war": "L'opposizione all'intervento straniero non può tacere il sostegno alla rivolta siriana"


Pubblichiamo una lettera aperta invata da Sinistra critica alle/ai promotori della petizione “Siria No war”. Ci sembra un dibattito importante per capire meglio comportamenti e responsabilità del movimento contro la guerra rispetto a quanto sta accadendo, da diverso tempo orami, nel mondo arabo.

Carissime/i amiche e amici di Peacelink,
abbiamo ricevuto da diverse persone che stimiamo la richiesta di firmare l’appello da voi proposto contro qualsiasi intervento militare in Siria. Abbiamo deciso – singolarmente e come organizzazione politica – di non aderire al vostro appello e vogliamo brevemente spiegarvene i motivi.

Naturalmente siamo contrari a qualsiasi intervento straniero in Siria, così come lo eravamo contro quello in Libia (lo dimostrano i nostri comunicati già dallo scorso febbraio e marzo e le manifestazioni che abbiamo contribuito a organizzare il 20 marzo a Milano e il 2 aprile in diverse città), pur condividendo le ragioni di chi nel febbraio si era ribellato al regime di Gheddafi.
Non condividiamo invece in alcun modo le motivazioni che sostenete nella petizione e soprattutto riteniamo sbagliato e inefficace rispetto lo stesso obiettivo che si prefigge l’appello tacere della repressione che il regime siriano compie da sempre e in particolare in questi ultimi mesi contro la rivolta popolare. E questo è il secondo motivo di disaccordo: il vostro appello sottolinea decisamente il carattere “etrerodiretto” e “autoproclamato” della rivolta siriana: non siamo assolutamente d’accordo.

La rivolta popolare in Siria è iniziata mesi fa in molte città siriane con la richiesta di libertà, dignità e democrazia. A queste richieste – giuste e condivisibili – il regime di Bashar El Assad ha risposto con la repressione violenta: non ci interessa il conteggio dei morti, ma questi ci sono stati come dimostrano migliaia di filmati autoprodotti (per questo dimostrazione del “complotto”?); così come sono certi gli arresti – ammessi poi dallo stesso regime quando ha scarcerato migliaia di prigionieri che negava di avere; così come sicuri sono gli omicidi, i pestaggi, gli arresti di giornalisti, vignettisti, oppositori....
Le ragioni della rivolta non possono essere nascoste dagli obiettivi di alcuni soggetti politici – interni ed esterni – che vogliono approfittarne per una loro propria agenda.

Non vogliamo farla lunga. Pensiamo che un appello contro qualsiasi intervento straniero in Siria che non parta dalla solidarietà – umana, politica e attiva – alla rivolta siriana e che non veda nella caduta del regime di Assad e in una maggiore partecipazione popolare alla vita politica siriana l’obiettivo di una sinistra pacifista degna di questo nome non sia capace nemmeno di opporsi all’intervento straniero.
Non possono essere considerazioni “geopolitiche” a guidare la nostra opposizione alla guerra – come se il popolo siriano dovesse essere la vittima sacrificale delle alleanze regionali e dello scontro (reale) tra il protagonismo filoimperialista dei paesi reazionari arabi (Arabia Saudita, Qatar ecc...) e l’alleanza intorno all’Iran, vero obiettivo dello scontro.
Per difendere le popolazioni della regione dalle politiche imperialiste non possiamo in alcun modo diminuire la nostra solidarietà a chi si oppone, in Iran, Siria – come in Palestina, in Egitto, in Bahrein.

Saremo comunque vigili e attenti di fronte a qualsiasi escalation voluto dalla Nato e dai suoi alleati nella regione e non mancheremo di manifestare con voi contro la minaccia o la prospettiva di interventi militari esterni.
Vorremmo che anche voi foste con noi insieme alle comunità siriane che manifestano anche in Italia – spesso sole, come avviene per le altre comunità arabe in questi mesi in Italia – per la libertà del popolo siriano.

Flavia D’Angeli, Piero Maestri e Franco Turigliatto – portavoce Sinistra Critica

martedì 6 dicembre 2011

DAL CAIMANO AI COCCODRILLI....


L’annunciata manovra “salva Italia”è arrivata e rappresenta una violenta stangata antipopolare che ha lavoratrici e lavoratori e pensionate/i come bersaglio principale.

Una manovra all’insegna del “rigore” e dell'attacco ai più deboli, nella quale l’ipocrita retorica dell'equità si è tradotta in una gigantesca truffa ai danni di lavoratori, lavoratrici e pensionate/i – senza alcun vantaggio per le giovani generazioni, che saranno ancor più allontanate dal mondo del lavoro o utilizzate come concorrenza con la prossima creazione di una contrattazione duale.

Così il governo “tecnico” presenta la manovra più politica che si ricordi – con l’obiettivo di dare un preciso segnale ai "mercati": questo paese punta a spremere tutto quello che è spremibile dai soggetti più deboli e non toccherà in nessun modo le rendite, i profitti, gli interessi che quei mercati presidiano e difendono.

I provvedimenti racchiusi nella manovra vanno tutti in questa stessa direzione: aumento dell’età per andare in pensione e peggioramento degli assegni pensionistici; riproposizione dell’Ici e aumento delle rendite catastali; taglio delle imposte sulle imprese; liberalizzazione di interi settori dei servizi (quindi nuovo attacco all'acqua pubblica ma anche ai trasporti locali); rilancio delle grandi opere come la Tav.

In questo modo il governo mette in luce la sua natura politica, che ha il volto delle banche e della finanza che hanno festeggiato il suo insediamento.

L’appoggio unanime di centrodestra e centrosinistra (a parte l’ipocrita “opposizione” della Lega Nord che cerca di approfittare di questa “intesa nazionale” per rifarsi il trucco...) rende ancora più pericolosa l’operazione politica di Monti-Napolitano, perché cerca di affermare l’esigenza dell’“unità nazionale” di fronte alla crisi e del carattere “necessario e indifferibile” dei sacrifici.

La scelta del PD di schierarsi in prima fila in questa operazione è altrettanto significativa della natura di questo “partito naturale di governo”, avversario degli interessi delle classi più deboli e di una qualsiasi alternativa politica di sinistra.

Le prevedibili (e previste) scelte del governo Monti-Napolitano richiedono un impegno forte di tutta l’opposizione politica e sociale per rilanciare un’iniziativa unitaria e di massa contro il governo e contro le politiche di austerità. Unità dal basso, senza scorciatoie politiciste, ma capace di coinvolgere milioni di lavoratrici e lavoratori, pensionate/i, giovani precari/e e studenti – quelle donne e uomini che avevano riempito le strade di Roma il 15 ottobre - vittime sacrificali dei coccodrilli di governo.

Unità dell’opposizione politica e sociale capace di affermare il rifiuto delle politiche di austerità e delle nuove liberalizzazioni, per ribadire la scelta del non pagamento del debito illegittimo e del recupero delle risorse necessarie ad un nuovo welfare e alla difesa degli interessi delle classi deboli (in particolare per garantire diritti e reddito a tutte/i) con il taglio delle spese militari, la cancellazione delle grandi opere inutili e dannose, il recupero dell’immensa evasione fiscale....

Unità dell’opposizione che può e deve partire da un vero sciopero generale e generalizzato capace di dare una risposta ferma e forte alla manovra del governo e alla sua stessa natura politica.

Sinistra Critica è impegnata nella costruzione di questa larga opposizione sociale e politica:

* saremo in tutte le piazze degli scioperi contro la manovra – il 12 dicembre e soprattutto il 16 con la Fiom e lavoratrici e lavoratori della Fiat (dove si sperimentano le nuove forme di sfruttamento e cancellazione dei diritti dei lavoratori).
Serve uno sciopero generale vero ed efficace e un'unità sindacale (a partire da quella dei sindacati di base) basato sulla difesa di diritti fondamentali non più negoziabili sull'altare della concertazione;
* il 17 dicembre a Roma nell’assemblea del “Comitato No debito” che vogliamo diventi un appuntamento aperto e unitario organizzato da tutto il fronte di opposizione politica e sociale – anche per organizzare insieme a tutte le forze che si oppongono al governo Monti, una grande manifestazione nazionale;
* nella partecipazione alla campagna “Rivolta il debito” e per una Audit pubblico sul debito illegittimo – con iniziative nelle diverse città italiane nella settimana tra il 10 e il 17 dicembre.

ESECUTIVO NAZIONALE SINISTRA CRITICA

giovedì 24 novembre 2011

Noi, il loro debito non lo paghiamo .Difendiamo lavoro, diritti e stato sociale

Il governo unico delle banche e della finanza, in tutta
Europa, attraverso organismi e poteri che nessuno ha
eletto, nessuno ha potuto giudicare e grazie a governi
complici, impone a tutti gli stati la stessa politica
antisociale:
· tagli all'istruzione pubblica, alla sanità,
· alle pensioni,
· ai servizi pubblici,
contemporaneamente sviluppa un pesante attacco ai salari ai diritti dei lavoratori ed al loro
potere di contrattazione e all'occupazione.
Questa impostazione ben si sposa con la rottamazione dei diritti e del potere
di contrattazione collettiva, a partire dai contratti, voluta da Marchionne.
Il neonato governo Monti, espressione diretta dei poteri forti e del padronato, lascia pochi dubbi
sui provvedimenti che intende varare in coerenza con i dettati della Bce e con le richieste della
finanza internazionale.
Noi, il loro debito non lo paghiamo
Difendiamo lavoro, diritti e stato sociale
Introduce Delia Fratucelli (comitato 1° Ottobre Torino). Intervengono:
Giorgio Cremaschi Fiom-Cgil
Gianni Vattimo europarlamentare
Assemblea pubblica
Venerdì 25 Novembre, alle ore 21 presso la Sala
della Circoscrizione di Corso Belgio 91 (tram 15, 68)
promossa dal Comitato primo Ottobre di Torino (promotori appello No debito)

mercoledì 16 novembre 2011

Sebben che siamo donne


venerdì 18 novembre ore 20.30,
presso l' Unione Culturale Franco Antonicelli,
via Battisti 4b:
Sebben che siamo donne. "Femminismo e lotte sindacali nella crisi". Libro curato dai Quaderni Viola.
le curatrici Lidia Cirillo e Giovanna Vertova incontreranno e dialogheranno insieme a Liliana Ellena, storica dell'università di Torino;
Cristiana Albino del Collettivo Me-Dea,
Maria Chiara Martinatto Maritano, lavoratrice di un call center;
Chiara Carratù, docente precaria.
L'incontro è organizzato dai Quaderni Viola.

domenica 13 novembre 2011

PRESENTAZIONE DEI LIBRI:FINANZCAPITALISMO E CAPITALISMO TOSSICO



Mercoledì 16 novembre ore 17, 30
Sala della circoscrizione di Corso Belgio 91
presentazione dei libri:
Finanzcapitalismo di Luciano Gallino
e
Capitalismo tossico di Marco Bertorello,
parteciperanno gli autori .

ADDIO A BERLUSCONI E AL SUO GOVERNO ADESSO OPPOSIZIONE AL GOVERNO DELLE BANCHE E DELLA FINANZA EUROPEA


Le migliaia di donne e uomini nelle piazze in tante città italiane giustamente festeggiano le dimissioni di un personaggio che troppi danni ha fatto negli anni in cui è stato presidente del consiglio – e anche in quelli in cui è stato all’opposizione.

Non condividiamo di questi festeggiamenti la disattenzione per come è avvenuta la caduta di Berlusconi e per quello che succedera da questo momento.

Nemmeno condividiamo la gioia verso il presidente Napolitano, che è stato protagonista di questa caduta per rispondere alle esigenze del capitale e della leadership politica europea, che consideravano Berlusconi e il suo governo inadatti a portare a termine le politiche di austerità e di distruzione dello stato sociale che in tutta Europa sono l’unica “risposta” alla crisi.

Tantomeno possiamo dimenticare che la cronaca di un’austerità annunciata porta il nome di Mario Monti, commissario integerrimo che vietava qualsiasi aiuto di Stato, per favorire gli interessi delle grandi banche e per garantire la deregulation del sistema finanziario. Lo stesso Mario Monti che sul “Corriere della sera” esaltava le “riforme” di Gelmini e Marchionne. Può seriamente qualcuno a sinistra pensare che sia l’uomo giusto, che possa rappresentare qualcosa di “meglio”?

Non c’è un “dopo”, quindi, c’è invece un presente rappresentato da un governo pericoloso per gli interessi delle classi popolari e che ha come suo unico programma nuove e più pesanti manovre economico-finanziarie contro lavoratrici e lavoratori, per maggiori privatizzazioni dei beni comuni, per asservire ancora maggiormente le scelte interne alle esigenze del capitale europeo.

Un governo che vuole vendere la vecchia ideologia secondo la quale dalla crisi si può uscire solamente con ulteriori sacrifici dopo che il welfare, i salari, le pensioni fanno sacrifici da più di vent'anni.

Per lavoratrici e lavoratori, precari/e, giovani, migranti c’è solo una strada possibile: l’opposizione immediata e ferma al governo Monti-Napolitano – ricostruendo dal basso le ragioni e l’organizzazione necessarie per resistere a nuove manovre contro di loro e per costruire una rete che ponga le questioni dell’alternativa sociale e politica, facendo pagare la crisi a chi l’ha provocata.

Non ci sono scorciatoie istituzionali: l’unica via democratica non può che venire da elezioni immediate e da un confronto sulla politica e sui programmi che provi a far tesoro di quanto accaduto negli ultimi quattro anni – con una sinistra anticapitalista che rifiuti qualsiasi compromesso di “unità nazionale” o “tecnico” e organizzi l’opposizione sociale e politica.

Invitiamo tutte/i a costruire la più ampia unità delle forze che rifiutano il governo Monti per un’uscita da sinistra alla crisi. Noi ci saremo.

Esecutivo nazionale Sinistra Critica

giovedì 27 ottobre 2011

sabato 8 ottobre 2011

Gli studenti svegliano l'Italia


Decine di manifestazioni contro Gelmini, il governo ma anche contro le banche e il debito. Prossimo appuntamento, l'assedio a Banca d'Italia del 12 ottobre


Studenti medi e universitari tornano in piazza in tutta Italia. Manifestazioni in oltre 90 città con una partecipazione complessiva straordinaria, decine di migliaia di studenti in corteo a Roma, Milano, Torino, Bologna e Palermo. "Is not our debt" si legge sullo striscione di apertura del corteo di Roma che prosegue con "One Solution, Global Revulution". "Noi il debito non lo paghiamo" lo slogan che attraversa tutte le manifestazioni.
La risposta degli studenti agli ultimi attacchi del governo e della BCE non si fa dunque attendere. Da troppi anni le scuole e le università pubbliche vedono ridotti i loro finanziamenti, il diritto allo studio viene smantellato e le tasse universitarie sono in continuo aumento. Ma le rivendicazioni degli studenti scesi in piazza vanno bel oltre la scuola e l'università. I giovani oggi si ribellano ad una condizione di precarietà alla quale vorrebbero condannarli, il rifiuto del pagamento del debito è il rifiuto a mantenere in vita un sistema economico che ha fallito, che ha prodotto disuguaglianza, illusioni, guerre, devastazione sociale.
Le manifestazioni di oggi sono solo il punto d'inizio di un autunno che si preannuncia rovente. L'obiettivo è quello di mettere il campo una mobilitazione permanente, duratura, radicale, in grado di contrastare il governo Berlusconi ma anche il cosiddetto Governo Unico delle Banche.
I prossimi appuntamenti sono già alle porte: il 12 ottobre alle 16 saremo sotto la Banca d'Italia, in via Nazionale a Roma, per rispedire al mittente la lettera firmata da Draghi e Trichet.
Il 15 ottobre ci saranno manifestazioni in tutto il mondo e saremo in piazza per la manifestazione nazionale a Roma. Con un solo obiettivo: scendere in piazza per rimanerci, fino a quando questo governo non se ne sarà andato!

AteneinRivolta - Coordinamento Nazionale dei Collettivi
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Il gigante si sta svegliando













Con le cariche del 1 ottobre la polizia di New York ha commesso uno sbaglio: gli indignati si stanno moltiplicando e scendono in piazza anche i sindacati. Il movimento si allarga nelle università


Cinzia Arruzza
da New York
Già nelle giornate tra gli arresti di massa di sabato e mercoledì 5 ottobre si respirava una strana aria in giro per la città e nei campus. Un’aria ancora più frizzante del solito ritmo frenetico di Manhattan. A quanto pare l’arresto di 700 manifestanti sabato 1 ottobre è stato il peggiore errore che la polizia newyorkese potesse commettere. È servito solo a fare indignare ulteriormente tutti coloro che già guardavano con indignazione alle misure neoliberiste con cui i governi di tutto il mondo stanno cercando di far pagare la crisi a chi la crisi non l’ha creata. Per esempio, ha spinto quasi 200 professori universitari della New School, la quarta università newyorkese per numero di iscritti e con una lunga tradizione progressista, a firmare e far girare un appello di condanna della repressione poliziesca e di sostegno a Occupy Wall Street e al corteo organizzato dagli studenti.

La manifestazione di ieri è stata organizzata dai sindacati più potenti di New York, tra cui Seiu 1199 (sindacato dei lavoratori della sanità), Afl-Cio, Cwa 1109 (sindacato dei lavoratori delle telecomunicazioni), Rwdsu (sindacato dei lavoratori commercio), Transport Workers Unions (che organizzai lavoratori della metropolitana) e da una rete di comunità di base, tra cui Alliance for Quality Education New York Communities for Change, Coalition for the Homeless, NYC Coalition for Educational Justice e molti altri. Con la manifestazione di ieri questa rete di sindacati e organizzazioni locali intendeva esprimere la propria solidarietà con Occupy Wall Street. A loro si sono aggiunti gli studenti di tre università newyorkesi, Cuny (università pubblica con un’alta percentuale di studenti afro-americani e latinos), The New School e NYU, che hanno organizzato il proprio corteo dai rispettivi campus alla piazza di partenza della manifestazione, Foley Square. Gli studenti sono partiti in una manifestazione non autorizzata dalla sede della New School, hanno bloccato la Quinta Avenue e si sono uniti in Washington Square agli studenti della NYU e di CUNY, per poi continuare verso il concentramento dei sindacati. Oltre 2000 studenti universitari hanno invaso le strade della città dietro gli striscioni “Arabian Spring, European Summer, American Fall...” (“fall” in americano vuol dire sia autunno che caduta, o declino) e “Occupy America”. E molti altri erano già nella piazza, mescolati ai vari spezzoni di sindacati, organizzazioni locali e comunità di base. A mobilitare gli studenti, oltre all’indignazione per gli arresti di sabato, la preoccupazione per gli effetti della crisi economica. Solo tra 2001 e 2006 le tasse universitarie sono aumentate del 56%. Ogni studente universitario americano ha un debito medio di 24 mila dollari: una cifra che, con gli effetti della crisi sul mercato occupazionale, in molti impiegheranno decenni a pagare. Peraltro, il totale del debito studentesco statunitense è di 805 miliardi dollari: somma sufficiente a fare scoppiare un’altra bolla finanziaria, in caso di insolvenza.

Foley Square era così affollata che il corteo ha impiegato più di un’ora per riuscire a defluire dalla piazza. I sindacati e le comunità di base hanno mantenuto la promessa. La manifestazione di oggi è stata imponente e ha visto una partecipazione massiccia di lavoratori afro-americani, latinos e migranti. Per tutto il corteo risuonava lo slogan “Lavoratori e studenti uniti: blocchiamo la città!” Decine di migliaia di persone hanno sfilato per ore fino ad arrivare al Financial District e al Zuccotti Park, in cui da venti giorni centinaia di persone organizzano assemblee generali, workshop, gruppi di lavoro e sfidano l’autunno newyorkese dormendo all’adiaccio.
Nel frattempo Occupy Wall Street si sta trasformando in Occupy America. Sempre in questi giorni si stanno moltiplicando le occupazioni e le manifestazioni in tutti gli Stati Uniti: da Austin, in Texas, a Boston,Chicago, Denver, Los Angeles e decine di altre città in California e Florida. I commentatori di diverse testate americane, dal New York Times, a Democracy Now and The Nation, si iniziano a chiedere se la solidarietà tra sindacati, studenti e la protesta Occupy Wall Street, che ha dato vita alla straordinaria giornata di mobilitazione di oggi, non segni l’inizio di un nuovo movimento. A giudicare dall’aria che si respirava a New York oggi pomeriggio, sembrerebbe che il gigante America si stia finalmente svegliando.

140 professori della New School a sostegno dei manifestanti

The New School faculty in support of Occupy Wall Street
We faculty members of The New School would like to express our solidarity with the Occupy Wall Street protest. We support its demand for real democracy and its denunciation of the effects of the economic crisis on the conditions of life for millions of people around the world. We strongly disagree with political and economic measures against the crisis based on the reduction of public spending and cuts to public services. We condemn the exclusive and unnecessary use of force by the NYPD that resulted in the arrests of 700 hundred people marching in a peaceful and non-violent demonstration on Saturday October 1st. It is inconceivable that New York, the city known for a tradition of free and independent thinking, should be governed like a police state.
This crisis and the measures adopted by governments will affect the future of young people, and among them, our student body. We all know that our students made a commitment to higher education that forces them into debt. The current economic situation is such that our students will probably carry these debts for decades to come. This is why we support the walk out organized by our students on Wednesday October 5th at 3:30pm.

Signatures
Elaine Abelson (Associate Professor of History and Urban Studies)
Barbara Adams (PT faculty at Parsons and NSGS)
Zed Adams (Assistant Professor of Philosophy)
Andrew Arato (Dorothy Hart Hirshon Professor of Political and Social Theory)
Cinzia Arruzza (Assistant Professor of Philosophy)
Peter Asaro (Assistant Professor, The New School for Public Engagement)
Jonathan Bach (Associate Professor of International Affairs)
Lopamudra Banerjee (Assistant Professor of Economics)
Stefani Bardin (Adjunct Assistant Professor, Parsons)

Banu Bargu (Assistant Professor of Political Science)
David Barker (Adjunct Faculty, Lang College)
Fabiola Berdiel (Professor of International Affairs)
Jay Bernstein (University Distinguished Professor of Philosophy)
Richard Bernstein (Vera List Professor of Philosophy)
Omri Boehm (Assistant Professor of Philosophy)
Chiara Bottici (Assistant Professor of Philosophy)
Jackie Brookner (Associate Teaching Professor, Parsons Fine Arts)
Colette Brooks (Arts in Context Program Coordinator, Lang College)
Ted Byfield (Assistant Professor Art, Media, and Technology)
Chris Christian (Assistant Professor, Psychology Department)
Laurie Halsey Brown (Associate Professor, Department of Film and Media)
Paolo Carpignano (Associate Professor of Media Studies)
Emanuele Castano (Associate Professor of Psychology)
Benoit Challand (Visiting Associate Professor of Political Science)
Katayoun Chamany (Associate Professor of Biology, Lang College)
Doris F. Chang (Assistant Professor of Psychology)
Juliana Cope (Part-time Faculty, Parsons)
Alice Crary (Associate Professor of Philosophy)
Simon Critchley (Professor of Philosophy)
Juan E De Castro (Associate Professor, Literary Studies)
Alexandra Délano (Assistant Professor of Global Studies)
Shari Diamond (Assistant Professor of Fine Arts)
James Dodd (Philosophy Department Chair)
Patrick Dodd (Adjunct Faculty, French Department)
Kate Eichhorn (Assistant Professor Culture and Media Studies)
Nadia Elrokhsy (Assistant Professor Sustainable Design)
Ernesto Fedukovitch (Part Time Faculty, Foreign Languages)
Federico Finchelstein (Associate Professor of Historical Studies)
Duncan Foley (Leo Model Professor of Economics)
Carlos Forment (Associate Professor of Sociology)
Oz Frankel (Associate Professor of History)
Nancy Fraser (Henry A. and Louise Loeb Professor of Politics and Philosophy)
Jeffrey G. Goldfarb (Michael E. Gellert Professor of Sociology)
Deborah Gordillo (Assistant Professor of Music)
Neil Greenberg (Professor, The Arts)
Mark Greif (Assistant Professor of Literary Studies)
Pamila Gupta (Visiting Assistant Professor, Anthropology)
Luis Guzman (Humanities, New School for Public Engagement)
Tilmann Habermas (Visiting Heuss Professor)
Orit Halpern (Assistant Professor of History)
Peter Haratonik (Associate Professor of Media Studies)
Rachel Heiman (Associate Professor of Anthropology)
Daniel G. Hill (Assistant Professor of Fine Arts)

Lawrence A. Hirschfeld (Professor of Anthropology and Psychology)
David Huyssen (Postdoctoral Faculty, Lang College)
Jessica Irish (Assistant Professor of Design & Technology)
Noah Isenberg (Director of Screen Studies)
Andreas Kalyvas (Associate Professor of Political Science)
Jesal Kapadia (Part-time Faculty, Media Studies)
Elizabeth Kendall (Part-Time Faculty)
Paul Kottman (Associate Professor of Comparative Literature)
Nicolas Langlitz (Assistant Professor of Anthropology)
Cynthia Lawson (Assistant Professor of Integrated Design)
Benjamin Lee (Professor of Anthropology)
Deborah Levitt (Assistant Professor, Department of Culture and Media Studies)
Margrit Lewczuk (Faculty, Visual Arts)
Gina Luria Walker (Associate Professor of Women's Studies)
Arien Mack (Alfred J. and Monette C. Marrow Professor of Psychology)
Lenore Malen (Faculty Member, The New School for General Studies)
Victoria Marshall (Assistant Professor of Urban Design)
Peter Matthiessen Wheelwright (Associate Professor, School of Constructed Environments)
Elzbieta Matynia (Associate Professor of Liberal Studies and Sociology)
Conor McGrady (Adjunct Faculty, Lang College)
Jack McGrath (Adjunct Faculty, MFA program)
P. Timon McPhearson (Assistant Professor of Urban Ecology)

Inessa Medzhibovskaya (Associate Professor and Co-Chair of Literary Studies)
Carlos Motta (Adjunct Faculty, Parsons)
Edward Nell (Malcolm B. Smith Professor of Economics)
Vladan Nikolic (Associate Professor, Film and Media Studies)
Dmitri Nikulin (Pofessor of Philosophy and Director of Undergraduate Studies)
Julia Ott (Assistant Professor of History)
Leslie Painter-Farrell (Associate Director MATESOL, School of Languages)
Dominic Pettman (Chair and Associate Professor, Culture and Media)
Robert Polito (Professor of Writing)
Ross Poole (Adjunct Professor of Political Science and Philosophy)
Christian Proaño (Assistant Professor of Economics)
Timothy R. Quigley (Associate Professor of Philosophy)
Robert Rabinovitz (Associate Professor)
Hugh Raffles (Professor of Anthropology)
Rachelle Rahme (Senior Secretary of Culture & Media Studies, Interdisciplinary
Science, and First Year Programs)
Vyjayanthi Rao (Assistant Professor of Anthropology)
Jasmine Rault (Assistant Professor Culture and Media)
Janet Roitman (Associate Professor of Anthropology and International Affairs)
Lisa Rubin (Assistant Professor of Psychology)
Sanjay Ruparelia (Assistant Professor of Political Science)
Jeremy Safran (Professor of Psychology)
Scott Salmon (Associate Professor of Geography & Urban Studies)
Elaine Savory (Associate Professor Literature)
Trebor Scholz (Assistant Professor, Department of Culture and Media)
Mira Schor (Associate Teaching Professor, Parsons Fine Arts)
Anezka Sebek (Associate Professor of Media Design)
Willi Semmler (Professor of Economics)
Anwar Shaikh (Professor of Economics)
Ann-Louise Shapiro (Professor of History)
Henry Shapiro (Part-time Lang faculty since 1989)
Rachel Sherman (Associate Professor of Sociology)
Trebor Scholz (Assistant Professor, Department of Culture and Media)
Mira Schor (Associate Teaching Professor, Parsons)
Kathryn Simon (Faculty, Parsons School of Design)
Ann Snitow (Associate Professor, Literature and Gender Studies)
Nidhi Srinivas (Associate Professor of Nonprofit Management)
Miriam Steele (Professor of Psychology)
Radhika Subramaniam (Asst. Professor, Art & Design History & Theory, Parsons)
Karam Tannous (Faculty, Dept. of Foreign Languages)
Sharika Thiranagama (Assistant Professor of Anthropology)
Iddo Tavory (Assistant Professor of Sociology)
Nadine Teuber (Visiting Heuss Lecturer)
Eugene Thacker (Associate Professor, Media Studies)
Miriam Ticktin (Assistant Professor of Anthropology)
Lynne Tillman (Part-time Faculty)
Cameron Tonkinwise (Associate Dean for Sustainability)
John VanderLippe (Associate Dean for Faculty & Curriculum, NSSR)
Jeremy Varon (Associate Professor of History)
Silvia Vega-LLona (Associate Teaching Professor Culture and Media)
Aleksandra Wagner (Assistant Professor of Sociology)
Robin Wagner Pacifici (Professor of Sociology)
Louise Walker (Assistant Professor of Historical Studies)
McKenzie Wark (Professor of Liberal Studies)
Jamieson Webster (Psychology Department)
Leah Weich (Director of Academic Advising, Lang College)
Tony Whitfield (Associate Dean for Civic Engagement, Parsons)
Deva Woodly (Assistant Professor of Political Science)
Susan Yelavich (Assistant Professor, School of Art and Design History)
Rafi Youatt (Assistant Professor of Political Science)
Caveh Zahedi (Assistant Professor of Screen Studies)
José DeJesús Zamora (Assistant Professor, School of Design Strategies)
Eli Zaretsky (Professor of History)
Aristide Zolberg (Walter P. Eberstadt Professor of Political Science)
Vera Zolberg (Professor of Sociology)

Indignados a New York


La manifestazione "Occupy Wall Street" è cresciuta nel corso delle ultime settimane fino alla manifestazione del 1 ottobre sul ponte di Brooklyn. La polizia ha fatto 700 arresti ma il movimento non si ferma


Cinzia Arruzza
da New York
Il ponte di Brooklyn è lungo quasi due chilometri. Due chilometri sospesi tra cavi di acciaio sull’acqua dell’East River, che il 1 ottobre si sono riempiti di una folla diversa da quella dei soliti turisti a caccia di un tramonto romantico sullo sfondo dello skyline di Manhattan: una folla composta da migliaia di persone, rumorose e gioiose, in una manifestazione non autorizzata partita da Zuccotti Park e destinata a terminare a Brooklyn, dall’altro lato dell’East River. Il 1ottobre è il quindicesimo giorno dall’inizio di Occupy Wall Street, un’occupazione permanente del Zuccotti Park, rinominato Liberty Plaza, vicinissimo a Wall Street, iniziata il 17 settembre scorso. Promossa da vari gruppi e individui di orientamento prevalentemente anarchico (per quanto “anarchico” negli Stati Uniti sia una sorta di etichetta ombrello piuttosto vaga), la prima manifestazione e occupazione non contava più di qualche centinaio di persone. Ispirandosi esplicitamente all’esperienza di piazza Tahrir e delle acampadas spagnole, l’accampamento newyorkese si è dato da subito due parole d’ordine fondamentali: democrazia e condanna della corruzione degli speculatori finanziari. Il primo documento ufficiale dell’occupazione è stato approvato dall’assemblea generale del 29 settembre. Si tratta di un atto di accusa senza mezzi termini, rivolto ai governi, alle banche, alle multinazionali, a tutti responsabili dell’attuale crisi economica ed ecologica. Il documento non si conclude con una lista di rivendicazioni, forse a sottolineare che i manifestanti non riconoscono nessuna legittimità a governi e capitalisti, e anche che l’unica rivendicazione condivisa è un cambiamento radicale del sistema.

Nel corso delle scorse settimane l’occupazione ha iniziato ad organizzarsi, dando vita a decine di gruppi di discussione, assemblee generali, iniziative, allestendo una biblioteca e garantendo la distribuzione di cibo. Il metodo usato per le comunicazioni durante l’assemblea generale (che si riunisce ogni giorni e prende le decisioni) e in situazioni di piazza è singolare: al posto di megafoni e microfoni, un gigantesco megafono umano. Le frasi di chi parla vengono ripetute in coro da tutti coloro che riescono a sentirle e in questo modo vengono amplificate. Per quanto strano possa sembrare, questo metodo ha il merito di ridurre di parecchio retorica e leaderismo, e funziona perfettamente anche in caso di emergenza, ad esempio quando si è trattato di comunicare con i manifestanti arrestati.

Fino a questo momento la composizione della protesta è stata prevalentemente giovanile. Tuttavia, oggi una rete di sindacati radicali e organizzazioni di lavoratori, tra cui New York Communities for Change, ha deciso di aderire alla protesta e di dar vita a una manifestazione il prossimo mercoledì pomeriggio.
Il momento di svolta decisivo nella dinamica della protesta si è avuto la settimana scorsa, quando la polizia ha brutalmente caricato e malmenato senza motivo una manifestazione non autorizzata di qualche centinaio di occupanti diretta a Union Square. A partire da quel momento la voce dell’occupazione del Zuccotti Park e l’indignazione per l’arroganza e la violenza delle forze dell’ordine, hanno iniziato a diffondersi attraverso internet e nei campus universitari newyorkesi. Risultato: le occupazioni si sono estese ad altre città statunitensi, da Boston a Los Angeles, e centinaia di newyorkesi hanno iniziato ad affollare le numerose iniziative che riempiono le giornate di Occupy Wall Street. Alla manifestazione non autorizzata del 1, convocata alle 15 per marciare verso Brooklyn, hanno partecipato poco meno di 10.000 persone, per lo più giovani, in stragrande maggioranza bianchi. Anche questa volta la polizia di New York ha deciso di andarci con la mano pesante. Arrivati al ponte, una parte della manifestazione ha iniziato a marciare senza problemi nell’area pedonale; un’altra parte, invece, è caduta nel vero e proprio trappolone escogitato dalla polizia e ha imboccato il percorso stradale del ponte, bloccando il traffico. Come testimoniato da molti manifestanti, la polizia non soltanto non ha dato nessun segno che il blocco del traffico fosse proibito, ma ha anzi fatto credere ai manifestanti che non ci fosse nessun problema. Invece, giunti all’incirca a metà del ponte i manifestanti sono stati circondati dalla polizia, e dunque bloccati senza nessuna via di fuga. A quel punto sono iniziati gli arresti di massa: oltre 700 persone sono state ammanettate, caricate sui pullman, e portate al posto di polizia. Al momento si attendono notizie delle accuse che verranno loro mosse e del loro rilascio. Nonostante gli arresti di massa, tuttavia, il movimento non ha dato nessun segno di voler retrocedere. Al contrario, centinaia di manifestanti hanno cercato di marciare in direzione della centrale di polizia, in solidarietà con i compagni arrestati. Se la polizia voleva spaventare la manifestazione, di certo non ci è riuscita, al contrario, sembra che gli occupanti di Wall Street non abbiano proprio nessuna paura. Finita la manifestazione, duemila persone si sono dirette verso Liberty Plaza, dove hanno continuato a ballare e festeggiare per ore, nonostante la pioggia. E domani si ricomincia.

Per chi non ha familiarità con la politica americana questa giornata potrebbe sembrare una delle tante giornate di protesta. Non lo è. Se si prendono in considerazione lo stato di sfacelo della sinistra americana, il livello di repressione poliziesca e controllo sociale, difficilmente paragonabili a quello di un qualsiasi paese europeo, la durezza del capitalismo americano, l’assenza sostanziale di diritti del lavoro e di diritti civili che non siano quelli meramente individuali, quello che sta accadendo in questi giorni a New York ha dello straordinario. Occupy Wall Street ha tutte le potenzialità per crescere e allargarsi. Naturalmente ci sono delle incognite e alcuni problemi di fondo. In primo luogo bisognerà verificare la capacità del movimento di estendersi ai campus newyorkesi e di includere almeno parte della comunità afro-americana e latina. In secondo luogo, bisognerà che la lista di accuse si trasformi anche in una lista di rivendicazioni, attorno a cui attrarre e organizzare il movimento. Infine, bisognerà vedere se il supporto dei sindacati si rivelerà qualcosa in più di una mera formalità. A partire da mercoledì prossimo.

martedì 4 ottobre 2011

“NOI IL LORO DEBITO NON LO PAGHIAMO”


Vuoi un Paese senza scuola pubblica, servizi sociali e sanità?
Vuoi un Paese che demolisca diritti di lavoratori e lavoratrici?
Vuoi un Paese che finanzia guerre in Afganistan e Libia?
Vuoi vivere in un Paese che respinge alle proprie frontiere
chi viene in cerca di una vita migliore?
Questo è il disegno tracciato dalle Istituzioni, dalla Banca Centrale Europea,
dai singoli governi, per mettere in salvo i profitti dei grandi operatori finanziari.
Per fare ciò hanno una sola ricetta: far pagare lavoratori e lavoratrici,
studenti e studentesse, immigrati e immigrate, giovani “mai più pensionati”.
Se vuoi dire no
“NOI IL LORO DEBITO NON LO PAGHIAMO”
Sabato 15 Ottobre sarà una giornata europea ed internazionale di mobilitazione.
L’appuntamento nazionale di Roma deve rappresentare un punto di partenza per avviare un percorso
capace di porre un’alternativa reale a questo disegno.
Cominciamo da subito sul nostro territorio a costruire una mobilitazione cittadina su questi temi. L’appello
“DOBBIAMO FERMARLI” propone 5 punti di politica economica sociale e democratica:
1. Non pagare il debito. Bisogna colpire a fondo la speculazione finanziaria e il potere bancario.
2. Taglio alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra. Dalla Libia all’Afghanistan.
3. Giustizia e diritti per tutto il mondo del lavoro. Abolizione di tutte le leggi sul precariato, riaffermazione al
contratto a tempo indeterminato e della tutela universale garantita da un contratto nazionale inderogabile.
4. I beni comuni per un nuovo modello di sviluppo. Occorre partire dai beni comuni per costruire un diverso
modello di sviluppo, ecologicamente compatibile.
5. Una rivoluzione per la democrazia. Bisogna partire dalla lotta a fondo alla corruzione e a tutti i privilegi di
casta, per riconquistare il diritto a decidere e a partecipare affermando ed estendendo i diritti garantiti dalla
Costituzione.
PRESIDIO RUMOROSO PROMOSSO DAI FIRMATARI DELL’APPELLO
DOBBIAMO FERMARLI
VENERDI’ 7 OTTOBRE 2011 ORE 21.30
IN PIAZZA CASTELLO ANGOLO VIA GARIBALDI

martedì 20 settembre 2011

"Non paghiamo il loro debito", l'assemblea del 1 ottobre


E’ da più di un anno che in Italia cresce un movimento di lotta diffuso. Dagli operai di Pomigliano e Mirafiori agli studenti, ai precari della conoscenza, a coloro che lottano per la casa, alla mobilitazione delle donne, al popolo dell’acqua bene comune, ai movimenti civili e democratici contro la corruzione e il berlusconismo, una vasta e convinta mobilitazione ha cominciato a cambiare le cose. E’ andato in crisi totalmente il blocco sociale e politico e l’egemonia culturale che ha sostenuto i governi di destra e di Berlusconi. La schiacciante vittoria del sì ai referendum è stata la sanzione di questo processo e ha mostrato che la domanda di cambiamento sociale, democrazia e di un nuovo modello di sviluppo economico, ha raggiunto la maggioranza del Paese.
A questo punto la risposta del palazzo è stata di chiusura totale. Mentre si aggrava e si attorciglia su se stessa la crisi della destra e del suo governo, il centrosinistra non propone reali alternative e così le risposte date ai movimenti sono tutte di segno negativo e restauratore. In Val Susa un’occupazione militare senza precedenti, sostenuta da gran parte del centrodestra come del centrosinistra, ha risposto alle legittime rivendicazioni democratiche delle popolazioni. Le principali confederazioni sindacali e la Confindustria hanno sottoscritto un accordo che riduce drasticamente i diritti e le libertà dei lavoratori, colpisce il contratto nazionale, rappresenta un’esplicita sconfessione delle lotte di questi mesi e in particolare di quelle della Fiom e dei sindacati di base. Infine le cosiddette “parti sociali” chiedono un patto per la crescita, che riproponga la stangata del 1992. Si riducono sempre di più gli spazi democratici e così la devastante manovra economica decisa dal governo sull’onda della speculazione internazionale, è stata imposta e votata come uno stato di necessità.
Siamo quindi di fronte a un passaggio drammatico della vita sociale e politica del nostro Paese. Le grandi domande e le grandi speranze delle lotte e dei movimenti di questi ultimi tempi rischiano di infrangersi non solo per il permanere del governo della destra, ma anche di fronte al muro del potere economico e finanziario che, magari cambiando cavallo e affidando al centrosinistra la difesa dei suoi interessi, intende far pagare a noi tutti i costi della crisi.
Nell’Unione europea la costruzione dell’euro e i patti di stabilità ad esso collegati, hanno prodotto una dittatura di banche e finanza che sta distruggendo ogni diritto sociale e civile. La democrazia viene cancellata da questa dittatura perché tutti i governi, quale che sia la loro collocazione politica, devono obbedire ai suoi dettati. La punizione dei popoli e dei lavoratori europei si è scatenata in Grecia e poi sta dilagando ovunque. La più importante conquista del continente, frutto della sconfitta del fascismo e della dura lotta per la democrazia e i diritti sociali del lavoro, lo stato sociale, oggi viene venduta all’incanto per pagare gli interessi del debito pubblico che, a loro volta, servono a pagare i profitti delle banche. Di quelle banche che hanno ricevuto aiuti e finanziamenti pubblici dieci volte superiori a quelli che oggi si discutono per la Grecia.
Questo massacro viene condotto in nome di una crescita e di una ripresa che non ci sono e non ci saranno. Intanto si proclamano come vangelo assurdità mostruose: si impone la pensione a 70 anni, quando a 50 si viene cacciati dalle aziende, mentre i giovani diventano sempre più precari. Chi lavora deve lavorare per due e chi non ha il lavoro deve sottomettersi alle più offensive e umilianti aggressioni alla propria dignità. Le donne pagano un prezzo doppio alla crisi, sommando il persistere delle discriminazioni patriarcali con le aggressioni delle ristrutturazioni e del mercato. Tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, è sottoposto a una brutale aggressione che mette in discussione contratti a partire da quello nazionale, diritti e libertà, mentre ovunque si diffondono autoritarismo padronale e manageriale. L’ambiente, la natura, la salute sono sacrificate sull’altare della competitività e della produttività, ogni paese si pone l’obiettivo di importare di meno ed esportare di più, in un gioco stupido che alla fine sta lasciando come vittime intere popolazioni, interi stati. L’Europa reagisce alla crisi anche costruendo un apartheid per i migranti e alimentando razzismo e xenofobia tra i poveri, avendo dimenticato la vergogna di essere stato il continente in cui si è affermato il nazifascismo, che oggi si ripresenta nella forma terribile della strage norvegese.
Il ceto politico, quello italiano in particolare coperto di piccoli e grandi privilegi di casta, pensa di proteggere se stesso facendosi legittimare dai poteri del mercato. Per questo parla di rigore e sacrifici mentre pensa solo a salvare se stesso. Centrodestra e centrosinistra appaiono in radicale conflitto fra loro, ma condividono le scelte di fondo, dalla guerra, alla politica economica liberista, alla flessibilità del lavoro, alle grandi opere.
La coesione nazionale voluta dal Presidente della Repubblica è per noi inaccettabile, non siamo nella stessa barca, c’è chi guadagna ancora oggi dalla crisi e chi viene condannato a una drammatica povertà ed emarginazione sociale.
Per questo è decisivo un autunno di lotte e mobilitazioni. Per il mondo del lavoro questo significa in primo luogo mettere in discussione la politica di patto sociale, nelle sue versioni del 28 giugno e del patto per la crescita. Vanno sostenute tutte le piattaforme e le vertenze incompatibili con quella politica, a partire da quelle per contratti nazionali degni di questo nome e inderogabili, nel privato come nel pubblico.
Tutte e tutti coloro che in questi mesi hanno lottato per un cambiamento sociale, civile e democratico, per difendere l’ambiente e la salute devono trovare la forza di unirsi per costruire un’alternativa fondata sull’indipendenza politica e su un programma chiaramente alternativo a quanto sostenuto oggi sia dal centrodestra, sia dal centrosinistra. Le giornate del decennale del G8 a Genova, hanno di nuovo mostrato che esistono domande e disponibilità per un movimento di lotta unificato.
Per questo vogliamo unirci a tutte e a tutti coloro che oggi, in Italia e in Europa, dicono no al governo unico delle banche e della finanza, alle sue scelte politiche, al massacro sociale e alla devastazione ambientale.
Per questo proponiamo 5 punti prioritari, partendo dai quali costruire l’alternativa e le lotte necessarie a sostenerla:
1. Non pagare il debito. Bisogna colpire a fondo la speculazione finanziaria e il potere bancario. Occorre fermare la voragine degli interessi sul debito con una vera e propria moratoria. Vanno nazionalizzate le principali banche, senza costi per i cittadini, vanno imposte tassazioni sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie. La società va liberata dalla dittatura del mercato finanziario e delle sue leggi, per questo il patto di stabilità e l’accordo di Maastricht vanno messi in discussione ora. Bisogna lottare a fondo contro l’evasione fiscale, colpendo ogni tabù, a partire dall’eliminazione dei paradisi fiscali, da Montecarlo a San Marino. Rigorosi vincoli pubblici devono essere posti alle scelte e alle strategie delle multinazionali.
2. Drastico taglio alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra. Dalla Libia all’Afghanistan. Tutta la spesa pubblica risparmiata nelle spese militari va rivolta a finanziare l’istruzione pubblica ai vari livelli. Politica di pace e di accoglienza, apertura a tutti i paesi del Mediterraneo, sostegno politico ed economico alle rivoluzioni del Nord Africa e alla lotta del popolo palestinese per l’indipendenza, contro l’occupazione. Una nuova politica estera che favorisca democrazia e sviluppo civile e sociale.
3. Giustizia e diritti per tutto il mondo del lavoro. Abolizione di tutte le leggi sul precariato, riaffermazione al contratto a tempo indeterminato e della tutela universale garantita da un contratto nazionale inderogabile. Parità di diritti completa per il lavoro migrante, che dovrà ottenere il diritto di voto e alla cittadinanza. Blocco delle delocalizzazioni e dei licenziamenti, intervento pubblico nelle aziende in crisi, anche per favorire esperienze di autogestione dei lavoratori. Eguaglianza retributiva, diamo un drastico taglio ai superstipendi e ai bonus milionari dei manager, alle pensioni d’oro. I compensi dei manager non potranno essere più di dieci volte la retribuzione minima. Indicizzazione dei salari. Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, istituzione di un reddito sociale finanziato con una quota della tassa patrimoniale e con la lotta all’evasione fiscale. Ricostruzione di un sistema pensionistico pubblico che copra tutto il mondo del lavoro con pensioni adeguate.
4. I beni comuni per un nuovo modello di sviluppo. Occorre partire dai beni comuni per costruire un diverso modello di sviluppo, ecologicamente compatibile. Occorre un piano per il lavoro basato su migliaia di piccole opere, in alternativa alle grandi opere, che dovranno essere, dalla Val di Susa al ponte sullo Stretto, cancellate. Le principali infrastrutture e i principali beni dovranno essere sottratti al mercato e tornare in mano pubblica. Non solo l’acqua, dunque, ma anche l’energia, la rete, i servizi e i beni essenziali. Piano straordinario di finanziamenti per lo stato sociale, per garantire a tutti i cittadini la casa, la sanità, la pensione, l’istruzione.
5. Una rivoluzione per la democrazia. Bisogna partire dalla lotta a fondo alla corruzione e a tutti i privilegi di casta, per riconquistare il diritto a decidere e a partecipare affermando ed estendendo i diritti garantiti dalla Costituzione. Tutti i beni provenienti dalla corruzione e dalla malavita dovranno essere incamerati dallo Stato e gestiti socialmente. Dovranno essere abbattuti drasticamente i costi del sistema politico: dal finanziamento ai partiti, al funzionariato diffuso, agli stipendi dei parlamentari e degli alti burocrati. Tutti i soldi risparmiati dovranno essere devoluti al finanziamento della pubblica istruzione e della ricerca. Si dovrà tornare a un sistema democratico proporzionale per l’elezione delle rappresentanze con la riduzione del numero dei parlamentari. E’ indispensabile una legge sulla democrazia sindacale, in alternativa al modello prefigurato dall’accordo del 28 giugno, che garantisca ai lavoratori il diritto a una libera rappresentanza nei luoghi di lavoro e al voto sui contratti e sugli accordi. Sviluppo dell’autorganizzazione democratica e popolare in ogni ambito della vita pubblica.
Questi 5 punti non sono per noi conclusivi od esclusivi, ma sono discriminanti. Altri se ne possono aggiungere, ma riteniamo che questi debbano costituire la base per una piattaforma alternativa ai governi liberali e liberisti, di destra e di sinistra, che finora si sono succeduti in Italia e in Europa variando di pochissimo le scelte di fondo.
Vogliamo trasformare la nostra indignazione, la nostra rabbia, la nostra mobilitazione, in un progetto sociale e politico che colpisca il potere, gli faccia paura, modifichi i rapporti di forza per strappare risultati e conquiste e costruire una reale alternativa.
Aderiamo sin d’ora, su queste concrete basi programmatiche, alla mobilitazione europea lanciata per il 15 ottobre dal movimento degli “indignados” in Spagna. La solidarietà con quel movimento si esercita lottando qui e ora, da noi, contro il comune avversario.
Per queste ragioni proponiamo a tutte e a tutti coloro che vogliono lottare per cambiare davvero, di incontrarci. Non intendiamo mettere in discussione appartenenze di movimento, di organizzazione, di militanza sociale, civile o politica. Riteniamo però che occorra a tutti noi fare uno sforzo per mettere assieme le nostre forze e per costruire un fronte comune, sociale e politico che sia alternativo al governo unico delle banche.
Per questo proponiamo di incontrarci il 1° ottobre, a Roma, per un primo appuntamento che dia il via alla discussione, al confronto e alla mobilitazione, per rendere permanente e organizzato questo nostro punto di vista.

"Questa crisi durerà uno o due decenni"


Intervista a Eric Toussaint, presidente del Cadtm, il comitato per l'annullamento del debito al terzo mondo che oggi opera molto attivamente anche in Europa


da comedonchichiotte.org
“I direttori delle banche centrali ci hanno detto che la crisi era sotto controllo, ma mentivano. Questa crisi durerà uno o due decenni”, ha affermato Éric Toussaint. La previsione può sembrare azzardata, ma fu lui lo scorso anno fa ad affermare a questo giornale che nel Vecchio Continente era presente una “situazione esplosiva” e che la profondità delle trasformazioni economiche sarebbe stata pari alla grandezza di queste esplosioni. Anche se sono comparsi gli “indignati” in Spagna e in Grecia, le vacanze estive hanno svolto la funzione di valvola di sicurezza, e grazie a questa la mobilitazione in Europa non ha raggiunto il livello di quella del dicembre 2001 in Argentina.

D. Qual è il livello di gravità di questa crisi?
R. Altissimo. È chiaro che i commentatori, i governi e i media più diffusi, i direttori delle banche centrali, che hanno sostenuto che la situazione era sotto controllo, mentivano pleatealmente. Siamo più o meno nella situazione degli anni ’30: il crac c’era stato nell’ottobre del ’29, ma i crolli delle banche si produssero nel ’33, e tra il ’29 e il ’33 i dirigenti degli Stati Uniti assicuravano che tutto era sotto controllo. Siamo entrati in una crisi che durerà un decennio o due.

D. Quali sono le cause?
R. Le misure economiche prese dai governi europei e dagli Stati Uniti negli ultimi quattro anni. La crisi è cominciata nel giugno-luglio del 2007 e ha avuto il suo apice nel 2008 con Lehman Brothers, ma il colpo forte è arrivato in Europa nell’ottobre di quell’anno. Subito dopo gli anelli più deboli della zona euro hanno ceduto, iniziando dalla Grecia, poi l’Irlanda, e qualche mese fa il Portogallo. Ora sta arrivando l'Italia e la Spagna e ritorna con forza negli Stati Uniti.

D. Si tratta di una crisi sistemica?
R. È sistemica, ma non definitiva. Non c’è una crisi terminale del capitalismo in sé. Il capitalismo ha sempre attraversato delle crisi che fanno parte del suo metabolismo, ma la sua fine sarà il risultato dell’azione cosciente dei popoli e dei governi. Passeremo attraverso periodi di recessione, depressione, una qualche crescita e una nuova caduta.

D. Perché si insiste con le tradizionali ricette di aggiustamento che non hanno dato risultati nel 2008?
R. Perché la resistenza a queste politiche è stata insufficiente.

D. C’è la possibilità di uscire da questa crisi con un altro tipo di politica?
R. Potrebbe esserci un’uscita alla Roosevelt con un maggior controllo del credito e più severe misure di disciplina finanziaria per costringere le banche a separarsi tra quelle di investimento e quelle di risparmio, e anche con un’imposizione fiscale più forte sui redditi più alti, con un conseguente miglioramento delle finanze pubbliche e la riduzione delle disuguaglianze. Ma potrebbe esserci anche una politica più radicale come la nazionalizzazione del settore bancario e la rinazionalizzazione dei settori economici che sono stati privatizzati in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Insieme all’annullamento del debito di Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna.

D. Crede possibile una di queste due vie di uscita?
R. Tutto dipende dalle mobilitazioni sociali, che in Europa non hanno raggiunto il livello di quelle che ci sono state del dicembre 2001 in Argentina. Per non parlare degli Stati Uniti, dove non ci sono grandi raduni di massa, quanto un attivismo dell’estrema destra con i Tea Party. Ma mi sembra difficile pensare che negli Stati Uniti la popolazione possa accettare che venga affondato il neoliberismo: per questo bisogna capire come si sviluppò la crisi del ’30, quando le mobilitazioni giunsero tra il ’35 e il ’36.

lunedì 19 settembre 2011

L'autunno del debito


Si è chiuso a Foligno il seminario di Sinistra Critica. Duecento partecipanti per tre giorni di workshop, assemblee, incontri, festa. Obiettivi: costruire un movimento per annullare il debito e rilanciare il progetto della sinistra anticapitalista


imq
Si è chiuso il seminario nazionale di Sinistra Critica che si è svolto dal 15 al 18 settembre. Circa duecento i partecipanti, tutti autopaganti, che per tre giorni hanno affollato – insieme alla federazione degli arbitri – l’hotel Della Torre di Trevi, a pochi chilometri da Foligno; una ventina di workshop e quattro assemblee plenarie due delle quali dedicate all'approfondimento di due temi di grande attualità: l’analisi dei movimenti sociali in Italia e in Europa con la partecipazione di Miguel Romero, direttore della rivista spagnola Viento Sur nonché membro di Izquierda Anticapitalista e attivista nel movimento dei cosiddetti indignados. La seconda assemblea tematica è stata dedicata al debito e al suo annullamento. Eric Toussaint, presidente del Cadtm – una Ong internazionale presente ormai in 30 paesi che si occupa da decenni dell’annullamento del debito al terzo mondo e che ormai si sta occupando a tempo pieno dell’Euoropa – ha fatto una “lezione” sulla crisi attuale del capitalismo, su come i debiti privati siano diventati pubblici e scaricati direttamente nelle tasche di milioni di lavoratori e lavoratrici. Un debito “illegittimo” che si può ridurre e non pagare come propone il Cadtm e ormai buona parte della sinistra anticapitalista in Europa.
Venerdì sera si è svolta invece l’assemblea femminista che per un’organizzazione “ecologista, comunista e femminista” è ormai un passaggio obbligato mentre domenica la plenaria con le conclusioni.
Oltre ad aver discusso di un nuovo progetto di informazione, dell'ipotesi di un'associazione di sostegno alle rivolte arabe e dell'ipotesi di costituire, nel movimento in forma aperta, dei Collettivi precari, nelle conslusioni del seminario è stato rilanciato l’appello promosso dal cartello “Dobbiamo fermarli!” e che vedrà una assemblea nazionale a Roma (Teatro Ambra Jovinelli) il 1 ottobre. L’indicazione emersa dal dibattito è che il 1 ottobre ci sia una grande partecipazione per costruire al meglio la manifestazione del 15 ottobre a Roma. E che quella dell’Ambra Jovinellli sia in particolare un’assemblea vera, con interventi dai territori, dai luoghi del conflitto e non una semplice autorappresentazione di soggetti politici o sindacali. Sinistra Critica proporrà agli aderenti all’appello “Dobbiamo fermarli” che in quella manifestazione viva uno spezzone dedicato proprio alla parola d’ordine “Non paghiamo il loro debito” per far vivere non solo uno schieramento unitario ma anche un contenuto forte rispetto alla gravità della crisi.
La tematica del debito è quindi il nodo centrale dell’autunno e Sinistra Critica proporrà ai suoi interlocutori, l’avvio di una campagna di massa che faccia discutere nei luoghi di lavoro, di studio, promuova iniziative dirette e manifestazioni visibili. Una campagna nazionale e internazionale in grado di invertire la logica, imposta da Bce, Unione europea ma anche dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dei sacrifici a ogni costo.
Dopo il 15 ottobre e dopo aver ribadito la volontà di farne una scadenza non rituale, l’attenzione si sposterà a Nizza, il 1 novembre, quando si terrà la manifestazione europea contro il vertice dei G20. Anche in quella occasione l’ipotesi è di promuovere, attorno alla parola d’ordine dell’annullamento del debito, uno spezzone il più grande possibile e in grado di unire forze tra loro diverse.
Il seminario di Sinistra Critica ha rappresentato l’occasione per avviare un primo dibattito in vista della scadenza congressuale di questa organizzazione che si terrà probabilmente in primavera 2012. Un dibattito che ha messo al centro dell’attenzione la necessità di relazionarsi ai nuovi processi di radicalizzazione politica, di rilanciare l’ispirazione originale di Sinistra Critica, vale a dire la costruzione di un nuovo soggetto della sinistra anticapitalista ma anche di affrontare con più determinazione il tema dell’identità politica e programmatica. Se ne discuterà già a partire dall’autunno.

C'è sinistra in Danimarca


Alle elezioni danesi sconfitta della destra, compresa quella xenofoba, e balzo dell'Alleanza rosso-verde (sinistra anticapitalista) che triplica voti e seggi. La formazione guidata da una ragazza di 27 anni farà nascere il governo ma non ne appoggerà la linea politica


La Danimarca mette fine a 10 anni di governo di centrodestra dopo le elezioni politiche del 15 settembre. Nascerà infatto un nuovo governo sotto la leadership di Helle Thorning-Schmidt, leader del Partito socialdemocratico e prima donna a capo di un governo danese. Il suo governo vedrà l’appoggio del Partito socialista popolare (Sf), la formazione della sinistra "radicale" che ha avuto un calo nei voti ma che per la prima volta accede al governo. Che però non si annuncia particolarmente stabile.
La coalizione vincente, infatti, raggiunge 89 seggi contro gli 86 dei partiti di destra. Ci sono poi 4 seggi che saranno destinati alle regioni autonome di Groenlandia e Isole Faroe. Inoltre, i due principali partiti della nuova coalizione di governo perdono entrambi dei seggi: scendono da 45 a 44 seggi i Socialdemocratici, con il 24,9 per cento, il peggior risultato negli ultimi 100 anni; Si ferma a 16 seggi il Sf, perdendone 7, con il 9,2 per cento dei voti rispetto al 13 per cento precedente. Il governo avrà dunque bisogno del sostegno dei Liberaldemocratici (Rv) che sono tra i vincitori di queste elezioni guadagnando 17 seggi (un aumento di 8) e passando dal 5,1 al 9,5 per cento. Ma ancora non basterà, la coalizione avrà bisogno anche del sostegno del partito della sinistra anticapitalista Alleanza rosso-verde (Arv) che è uno dei principali vincitori della competizione. Sale dal 2,2 al 6,7 per cento e triplica i seggi passando da 4 a 12. L’Arv ha già dichiarato che farà nascere il governo “anche se non ne condivide le linee politiche” e quindi manterrà una sua autonomia. L’Arv ha posizioni molto nette: difesa dei diritti sociali, opposizione alla riduzione delle pensioni e dei sussidi per i disoccupati, piano per il lavoro in progetti ecologisti, diritto all’asilo per gli immigrati. Anche i Liberaldemocratici hanno idee progressiste su immigrati e rifugiati –il Danish People’s Party, il partito dei estrema destra xenofoba perde tre seggi e scende al 12,3 per cento dimostrando che con la crisi la questione “immigrati” perde di peso – ma in politica economica non si discostano dal centrodestra.
Il cambio politico è certamente frutto della crisi e mostra una tendenza in corso in Europa: Angela Merkel perde qualsiasi elezione locale in Germania – a Berlino ha rivinto la Spd ma è impressionante il successo del “Piratenpartei” il partito dei Pirati mentre la sinistra di Die Linke paga la gestione governativa nella capitale tedesca scendendo dal 13 all'11 per cento – i socialisti francesi si preparano alla vittoria in Francia e qualcuno inizia a sperare anche in Italia. La crisi mette in difficoltà i governi – non a caso si profila la debacle anche del partito socialista di Spagna – e genera nuove aspettative che rischiano di essere ancora disilluse.
L’Alleanza rosso-verde danese che è stata guidata in questa campagna da una ragazza di 27 anni, Johannne Schmidt-Nielsen (nella foto), grande rivelazione della politica danese, ha deciso di tenere un atteggiamento equilibrato sapendo che una parte del successo dipende non solo dalla radicalità delle proposte ma anche dalla subordinazione del Sf – lo storico partito della sinistra radicale danese – ai socialdemocratici. Dopo dieci anni di destra al potere la scelta di far nascere il governo socialdemocratico è probabilmente obbligata ma se i suoi voti dovessero essere decisivi per appoggiare misure impopolari si tratterebbe della riedizione di un film che abbiamo già visto.

lunedì 12 settembre 2011

Le bugie di Sacconi sull'art. 18. Una storia operaia


Il racconto di un licenziamento "politico", avallato dalle Rsu e protetto proprio dallo Statuto dei lavoratori che il governo vuole cancellare


Gigi Malabarba
Licenziato dalla Fiat. Una decina di anni fa, nel corso di un lunghissimo conflitto sindacale nello stabilimento Alfa Romeo di Arese, venni licenziato per motivi politici (così sarà riconosciuto) dalla direzione Fiat, che aveva acquisito il noto marchio del 'biscione' con tutti i suoi dipendenti. Allora ero operaio alla catena di montaggio e da oltre vent'anni delegato sindacale, anche con ruoli dirigenti, prima nella Fiom-Cgil e poi nel sindacalismo di base. Si dà il caso che, grazie ai meccanismi perversi di rappresentanza che dalla metà degli anni '90 conferiscono rappresentatività ai firmatari di contratti e non in misura proporzionale al voto dei lavoratori e delle lavoratrici, la maggioranza formale delle Rsu era costituita da organizzazioni che mal sopportavano la mia presenza in azienda tanto quanto la direzione Fiat.

Accordo sindacati-azienda. Per cui, dopo anni costellati da provvedimenti di espulsione attraverso liste pilotate di cassintegrati da collocare a 'zero ore' e di successive vertenze che riuscivano a vanificarne i propositi (stiamo parlando di decine di espulsioni e di reintegri.), una parte dei sindacati insieme all'azienda definisce accordi che consentono di concentrare alcuni dei lavoratori più sindacalizzati - e quindi scomodi - e alcuni invalidi in reparti destinati alla chiusura: tutti in mobilità, quindi nessuna discriminazione.

Reintegrato grazie all'articolo 18. E' attraverso il combinato disposto dell'azione dell'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori (condanna dell'azienda per attività antisindacale) e dell'articolo 18 della medesima legge (obbligo di reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa) che ottengo il diritto a rientrare nel mio posto di lavoro. Il giudice del lavoro in prima istanza e la Corte d'Appello successivamente riconoscono l'esplicita volontà persecutoria della Fiat, a cui viene imposto di cancellare il provvedimento 'politico'.

Attacco all'articolo 18. Confindustria e governo Berlusconi, con l'appoggio di alcuni sindacati complici (la definizione è del ministro Sacconi) e di insigni giuristi democratici come il professor Pietro Ichino, decidono di sferrare un attacco aperto all'articolo 18, ricevendo una straordinaria risposta di massa: chi può dimenticare le centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici che invasero Roma il 23 marzo 2002, forse la più grande manifestazione del dopoguerra?

Fine della persecuzione. La Fiat, che sperava di beneficiare dei favori del governo amico, era ricorsa in Cassazione contro il mio reintegro. Ma, a pochi giorni dalla convocazione delle parti al Palazzaccio e di fronte all'assenza delle modifiche di legge sperate; anzi, alla vigilia di un referendum che chiedeva persino l'estensione dello Statuto alle aziende con meno di 16 dipendenti, per la prima volta nella storia - a quanto risulta per casi analoghi - rinuncia alla Cassazione e pone fine alla persecuzione.

Sacconi e Maroni a favore dei licenziamenti facili. Da allora il ministro Sacconi, così come il ministro Maroni, ma non solamente loro, si affannano a studiare le strade per imporre la libertà di licenziamento attraverso operazioni di aggiramento dello Statuto, legate all'introduzione di nuove norme contrattuali, cosiddette flessibili. Non contento, nell'attuale manovra finanziaria Sacconi ha inserito il famigerato articolo 8, che consente a una rappresentanza sindacale aziendale di poter derogare con un accordo alle leggi nazionali, ivi compreso ovviamente il noto articolo 18 dello Statuto.

Ministro bugiardo. Non ho bisogno di aggiungere argomenti per definire bugiardo il ministro che nega tutto ciò, ma non certo per ignoranza, dato che per i suoi trascorsi di dirigente sindacale della componente socialista della Cgil ben conosce la materia. Oggi sarebbe sufficiente non la maggioranza delle Rsu, terminali aziendali di sindacati comparativamente rappresentativi, ma un semplice sindacato di comodo (come il padano Sin.pa) che sottoscrivesse un accordo con l'impresa per cancellare con una firma leggi e contratti.

Un attentato alla Costituzione, senza ombra di dubbio. E sarebbe giusto, oltre agli scioperi e alle iniziative legali e istituzionali di ogni tipo evocate dai palchi dello sciopero generale del 6 settembre, provare anche ad agire con forme di insubordinazione non convenzionali, quando in pericolo è la democrazia. E cancellare per decreto le organizzazioni sindacali non complici è questo.

Ma come la mettiamo con l'accordo del 28 giugno sottoscritto dalle parti sociali, Cgil compresa, che consente le stesse identiche deroghe, anche quella sui licenziamenti, purchè si tratti di accordi aziendali sottoscritti dalla maggioranza delle Rsu dei sindacati firmatari di quel 'patto sociale'? In tutto il gruppo Fiat la Fiom e i sindacati di base non firmatari dei diktat di Marchionne sarebbero cacciati dalle fabbriche perché 'minoranza'! L'operaio e delegato sindacale Malabarba sarebbe stato licenziato e mai più reintegrato e tutta quella sollevazione popolare del 2002-2003 buttata al vento. Sacconi è un bugiardo, ma Susanna Camusso per poter contrastare la liquidazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori deve ritirare quella firma di giugno, che ha aperto la strada al decreto governativo, come le chiedono la Fiom e tutte le forze sindacali non complici.

lunedì 29 agosto 2011

CI VOGLIONO MORTI, DOBBIAMO FERMARLI


Sotto l’auspicio del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con il consenso “bipartisan” della minoranza parlamentare di centrosinistra e con un pressing costante di Marcegaglia, Marchionne, Montezemolo e poteri forti di questo paese,il governo Berlusconi si appresta al dibattito parlamentare per varare la “supermanovra “ di Ferragosto probabilmente modificata, certamente peggiorata.
Quello che tutti vogliono, in nome della “coesione sociale” e praticando di fatto una nuova versione dell’unità nazionale di altri tempi è far pagare il conto della crisi capitalistica alle classi popolari, utilizzando le politiche liberiste di risanamento del debito per spianare quello che resta delle conquiste del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici.
La regia dell’operazione è affidata alla Bce e agli esponenti dell’Unione Europea, l’esecuzione ai governi nazionali, siano essi di centrosinistra o di centrodestra.
Di fronte a questa nuova fase dell’austerità in Europa e nel nostro paese, di fronte alla prospettiva di un vero e proprio massacro sociale per le classi subalterne la risposta non può che essere quella della radicalizzazione del conflitto e del coordinamento delle forze che ne vogliono essere protagoniste su scala europea.
In Italia il 6 settembre può diventare la giornata di avvio di un percorso di radicalizzazione della mobilitazione contro la “supermanovra” e le politiche di austerità.
La Cgil, da una parte, ha proclamato lo sciopero generale di 8 ore in tutte le categorie per “modificare una manovra ingiusta e iniqua” in concomitanza con l’arrivo del decreto al Senato; dall’altra Usb e altri sindacati di base lanciano anch’essi otto ore di “sciopero generale e generalizzato” nella stessa giornata contro la “dittatura delle banche e dell’Unione europea”, aggiungendo tra le rivendicazioni della propria piattaforma il rifiuto, sacrosanto, dell’Accordo interconfederale del 28 giugno- che cancella praticamente il contratto nazionale e la possibilità per i lavoratori di scegliersi una rappresentanza sindacale- e la rottura con qualunque ipotesi di “patto sociale”.
La Cgil si trova tra la spada del “patto sociale” di cui si è fatta complice con l’accordo del 28 giugno e poi con la “camera delle corporazioni” insieme alla Confindustria, e la parete della rabbia sorda che cresce contro questa manovra tra i propri iscritti e moltissimi delegati e quadri sindacali .La scelta di una parte importante del sindacalismo di base di convergere sulla scadenza del 6 settembre, mantenendo la propria autonomia di iniziativa, non può che accentuare e rendere più visibile la contraddittorietà dell’orientamento della Cgil, favorendo nello stesso tempo la costruzione di una unità d’azione nei fatti che aiuta la resistenza dei lavoratori e delle lavoratrici alla manovra “lacrime e sangue”.
Per questo, la giornata del 6 settembre può diventare la prima occasione di una lunga stagione di lotte per mettere insieme il movimento dei lavoratori nelle sue diverse articolazioni con i movimenti sociali che in questi mesi sono stati protagonisti delle battaglie per il cambiamento in questo Paese: dal “popolo dell’acqua”, ai giovani precari, dagli studenti al movimento delle donne.
Dallo sciopero generale, e generalizzato, si può aprire un percorso tratteggiato dalle scadenze già proclamate, che miri alla costituzione di un fronte di tutte le opposizioni politiche e sociali: l’Assemblea nazionale convocata a Roma il 10 settembre da movimenti, forze sociali, sindacali, soggetti politici; ma anche la manifestazione dello stesso 10 settembre con proposta di “accampamento” a piazza San Giovanni. Dall’appuntamento del 1 Ottobre lanciato da quasi 1500 lavoratori, precari, delegati e militanti sindacali che hanno aderito all’appello “Dobbiamo fermarli” fino al 15 ottobre che, sull’onda dell’appello degli “indignados” spagnoli può diventare un grande appuntamento di lotta nazionale a Roma.
Ma il quadro nazionale non basta, occorre coordinare le forze anche sul piano europeo. Per questo diventa molto importante la manifestazione europea prevista per il 1 novembre a Nizza contro il vertice del G20 verso la quale ci impegniamo a costruire un’ampia alleanza sociale e politica.
Il nostro obiettivo, nel difficile contesto di crisi che ci viene scaricata addosso, è quello di allargare e unificare il conflitto sociale,a partire da “Comitati unitari di lotta” contro la “supermanovra” organizzati da forze sociali, sindacali e politiche capaci di coordinarsi tra loro, rendendo durevole nel tempo e socialmente radicato un conflitto che non potrà spegnersi con i primi freddi dell’inverno.
Pensiamo, ancora, che sia giunto il tempo di delineare una via d’uscita alternativa da questa “crisi del debito”, partendo dal rifiuto di riconoscerlo e di pagarlo e indicando una serie di misure che concretizzino due vecchi slogan mai tanto attuali quanto in questo momento: “Noi la crisi non la paghiamo” e “facciamo pagare chi non ha mai pagato”: il grande capitale, la rendita finanziaria e le nomenklature di faccendieri, politicanti e arricchiti al loro servizio. Serve una patrimoniale sulle fortune accumulate nel tempo, serve la nazionalizzazione delle banche, una verifica reale sulla consistenza e la qualità del debito. E poi misure sociali dopo decenni di stangate e manovre: un reddito sociale, l’istituzione del salario minimo, la riduzione dell’orario di lavoro, un piano di servizi sociali pubblici e autogovernati, un piano di risanamento ambientale a partire dai bisogni delle popolazioni e non dal profitto, la drastica riduzione delle spese militari.
Sinistra Critica mette a disposizione di questo progetto le proprie forze e si impegna fin da ora a costruire la massima partecipazione possibile alle diverse manifestazioni di massa che ,sul piano territoriale, concretizzeranno le diverse convocazioni sindacali dello sciopero generale del 6 settembre.
Con la consapevolezza che “ questo non è che l’inizio,bisogna continuare la lotta”.

Sinistra Critica- Esecutivo nazionale
Roma 26 Agosto 2011