mercoledì 27 aprile 2011

Il governo italiano getta la maschera: in Libia siamo in guerra!!


La decisione del governo Berlusconi di partecipare ai bombardamenti diretti in Libia è il “naturale sviluppo” della missione Nato – come dichiara lo stesso presidente della repubblica Napolitano che rivendica la paternità della decisione presa nel Consiglio superiore della difesa da lui presieduto.
Fin dall’inizio abbiamo avuto chiaro l’obiettivo della missione “umanitaria” in Libia: fermare ogni possibile dinamica rivoluzionaria, mettere sotto tutela la politica libica, garantire il proseguimento del controllo occidentale sulle risorse libiche e dei paesi del Mediterraneo.
La partecipazione italiana è resa ancor più grave dai suoi trascorsi in quel paese: prima potenza coloniale, poi alleata stretti del dittatore Gheddafi che garantiva la repressione violenta dei migranti in fuga verso l’Europa e forniva preziose risorse economiche alle imprese del “sistema Italia”.
Così gli aerei italiani bombarderanno le città libiche, dopo che allo stesso Gheddafi Finmeccanica e Beretta hanno fornito armi “leggere” e pesanti.
La scelta di bombardare la Libia è il “naturale sviluppo” anche delle scelte di politica estera di questi 20 anni, e dobbiamo ricordare che ancora le forze armate italiane partecipano all’occupazione nato dell’Afghanistan – ridotto ad una terra di nessuno governato dalle bande dei signori della guerra alleati della Nato.
Ribadiamo con forza il nostro no alla guerra in Libia che non aiuterà alcuna rivoluzione democratica ma rappresenterà un nuova forma neocoloniale verso quel paese e tutto il Mediterraneo.
Per questo dobbiamo rilanciare l’iniziativa contro la missione Nato e a sostegno delle rivoluzioni arabe, vera alternativa al controllo europeo e Usa sulla politca della regione.

Piero Maestri – portavoce Sinistra Critica

martedì 26 aprile 2011

RICORDO DI CARLO OTTINO


Il compagno Carlo Ottino ci ha lasciati il 25 aprile, il giorno che tanto amava, simbolo dei suoi ideali di giustizia sociale e libertà. La cerimonia funebre si terrà domani, mercoledì 27 aprile, presso il cimitero monumentale di Torino alle ore 10.15.




Carlo era nato a Torino nel 1929. Si era iscritto giovane al Pci, da cui ruppe da sinistra nel 1956 dopo aver criticato apertamente l’invasione sovietica in Ungheria. In quel periodo entrava in rapporto con la IV Internazionale.

Per Carlo, la lotta per il comunismo era intimamente legata all’affermazione della democrazia, dei diritti umani e della libertà. Questi sono gli ideali che ne contraddistingueranno il suo impegno per tutta la vita. Infatti, moltissimi lo conoscevano non solo come compagno di Rifondazione Comunista del circolo di San Salvario, quartiere nel quale ha ricoperto per anni la carica di consigliere circoscrizionale, ma anche come fervente attivista di Amnesty International.

Carlo, tuttavia, era noto soprattutto come il prof. Ottino. Egli fu, infatti, prof. di storia e filosofia in uno dei 4 licei classici torinesi, l’Alfieri. Aveva fama di essere un professore piuttosto severo. In realtà, molti suoi allievi apprezzavano il suo sguardo lucido e critico, ma soprattutto il suo impegno profondo a difesa della scuola pubblica e della laicità che vedeva uniti sullo stesso fronte insegnanti e studenti. Del suo impegno nel comitato torinese per la laicità della scuola pubblica vi è testimonianza nei suoi articoli e nelle sue interviste raccolte nella rivista trimestrale Laicità, di cui fu direttore.

È doveroso, inoltre, ricordare, in questi tempi bui caratterizzati anche da un forte revisionismo storico, l’impegno profuso da Carlo nel mantenere viva la memoria sullo sterminio degli ebrei e sulla lotta partigiana contro il fascismo. Va ricordata la sua collaborazione al volume curato da Enzo Traverso, Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, pubblicato nel 1995 da Bollati Boringhieri. Non a caso, egli si dedicò alacremente come membro della sezione di Torino dell’Opera Nomadi, alla lotta per la tutela e l’affermazione dei diritti dei Rom e dei Sinti, di fronte al persistente pregiudizio nei confronti di una popolazione che i nazisti cercarono di sterminare. Il suo impegno contro il razzismo era, quindi, intransigente e non ammetteva concessioni.

Di Carlo vanno apprezzate, quindi, la sua coerenza, la sua fermezza, ma anche la sua umiltà, doti sempre più rare nel panorama del mondo intellettuale. In questo era molto vicino all’azionismo torinese con cui manteneva un profondo dialogo nelle pagine di Laicità, in cui sono intervenuti tra le altre figure come Alessandro Galante Garrone e Norberto Bobbio. Egli riteneva, tuttavia, insufficiente l’orizzonte liberale di cui apprezzava la difesa per i diritti umani. Fuori dai grandi riflettori, Carlo aveva scelto di lottare dalla parte degli oppressi.

Per queste ragioni partecipò fin dall’inizio alla costruzione di Rifondazione Comunista svolgendo un’intensità attività militante. Nel 2007, poi, aderì senza indugi al nuovo progetto di Sinistra Critica di cui condivideva da subito la coerenza e la battaglia contro la guerra. Sempre più debilitato nel fisico non poté dedicare l’impegno che avrebbe voluto, ciò nonostante accettò con convinzione la candidatura per Sinistra Critica al Senato della Repubblica. Lo ricordiamo sorridente alla presentazione della lista, pronto a partire per una nuova avventura. D’altro canto, Carlo colpiva per la sua profonda umanità, la sua costante relazione con la vita normale, l’amore per sua moglie Wanda con cui passeggiava mano nella mano per le strade del suo quartiere, le cene al circolo a cantare le vecchie canzoni del movimento operaio e della resistenza sorseggiando una buona Barbera.

Alla moglie Wanda e ai suoi figli va tutto il nostro cordoglio e la nostra solidarietà.



Gippò Mukendi Ngandu a nome delle compagne e dei compagni di Sinistra Critica-Torino

mercoledì 20 aprile 2011

NELLE LOTTE DEI LAVORATORI E DEI MOVIMENTI SOCIALI PER DIFENDERE DIRITTI E LAVORO I VALORI DELLA RESISTENZA


La Resistenza costituì un momento fondamentale di rottura nella storia del paese, cacciando, con la lotta popolare, il fascismo e la dittatura e ricostituendo una unità del paese più giusta e democratica.
I diritti sociali ed economici presenti nella Costituzione trovarono però una reale concretizzazione (in riforme legislative, garanzie sociali, norme e contratti di lavoro collettivi) solo con la grande stagione di lotta della classe operaia e di tanti altri soggetti sociali negli anni ’60 e ’70.

Negli ultimi 20 anni gran parte di quelle conquiste sociali e democratiche sono andate perdute sotto l’offensiva delle forze padronali e per effetto delle politiche liberiste portare avanti sia dai governi di centro destra che di centro sinistra in Italia, come in Europa. La costituzione materiale del paese è di nuovo cambiata: in negativo.

La guerra sociale contro la classe lavoratrice
Il governo Berlusconi, e le forze che lo compongono tra cui una Lega sempre più xenofoba e razzista cercano oggi di ribaltare completamente della Costituzione, a partire dai suoi contenuti democratici, dal diritto allo studio, dalla sanità pubblica, dai diritti del lavoro.
E’ la stessa unità del paese che viene messa in discussione attraverso il tentativo di dividere la classe lavoratrice, costruendo la divisione tra un settore e l’altro e tra lavoratori italiani e lavoratori migranti.
Il cosiddetto federalismo fiscale ha la funzione di rompere i legami di solidarietà ed unità ancora esistenti e produrre nuove e più profonde divisioni e polarizzazioni sociali.
Tutti i governi europei stanno realizzando una vera e propria guerra sociale contro le classi popolari, per scaricare sulla classe lavoratrice i costi della crisi del sistema capitalista

Berlusconi e Marchionne: attenti a quei due
Se Berlusconi è antidemocratico e eversivo, non lo sono meno Marchionne e la Confindustria che vogliono tornare a governare le fabbriche come i vecchi padroni delle ferriere dell’ottocento, distruggendo diritti costituzionali (tra cui il diritto di sciopero) i contratti collettivi di lavoro e ricercando il massimo sfruttamento dei lavoratori, ridotti a prestare un lavoro servile senza tutele.

Ripudiamo la guerra
Ma la Costituzione è stata violentata anche sul principio fondamentale politico e morale, il ripudio della guerra. La Costituzione ripudia la guerra, ma da decenni ormai i governi del nostro paese, (siano di centro destra o di centro sinistra) impegnano l’Italia in guerre senza fine, in spedizioni e occupazioni militari neocoloniali, partecipando alla barbarie in nome dei valori, anzi degli interessi delle potenze capitalistiche. Impegnano una montagna di soldi mentre tagliano le pensioni e la spesa sociale.

Una sinistra vera e forte
Anche per questo il nostro paese ha bisogno che sia ricostruita una vera e forte sinistra, una sinistra che sia contro la guerra senza se e senza ma, che si batta per la giustizia sociale, che sia anticapitalista e lotti contro le logiche infernali di questo sistema, che ricostruisca una prospettiva di alternativa per la classe lavoratrice. E’ per questo anche che la Federazione della Sinistra e Sinistra Critica hanno costituito una coalizione nelle prossime elezioni amministrative. La città e i lavoratori ne hanno bisogno.


Riscostruire e unire i movimenti di lotta
Rinnovare con i valori e le aspirazioni di quella generazione e di quel movimento che realizzò la Resistenza, significa oggi lavorare per far tornare protagonista la classe lavoratrice (non certo schierarsi con Marchionne e i poteri forte come quasi tutti fanno nella nostra città), da sempre bastione fondamentale della democrazia.
Significa unificare i diversi movimenti sociali, costruire una piattaforma che difenda gli interessi delle classi popolari.

Battere governo e Confindustria
Vogliamo creare le condizioni di una nuova grande stagione di lotta contro Berlusconi e contro Marchionne, contro le forze politiche e sociali che essi rappresentano.
Questo governo infatti non lo si caccia alleandosi con Montezemolo e Confindustria, ma solo con l’unità e una grande lotta delle lavoratrici e dei lavoratori.

Solo tenendo insieme la lotta sociale e la lotta per la democrazia sarà possibile strappare settori popolari all’egemonia della destra, impedire involuzioni antidemocratiche e ridare una speranza di un futuro migliore alle giovani generazioni. E’ questo lo spirito del 25 aprile.

Sinistra Critica Torino

Cuba, una prima valutazione del Congresso


Si sta svolgendo a Cuba il congresso del Pcc, atteso dal 1997. Ma la relazione e le proposte formulate in apertura da Raul castro non affrontano neppure una delle questioni fondamentali in campo.


Antonio Moscato
A Cuba il Congresso del PCC tanto atteso (l’ultimo c’era stato nel 1997) è cominciato con una parata militare e una grande sfilata di popolo analoga a quella del 1° maggio. La motivazione di questo insolita premessa era il cinquantesimo anniversario della battaglia di Playa Girón, con cui è stato fatto coincidere l’inizio del congresso. Si potrebbe obiettare che a distanza di appena due settimane da quella tradizionale la mobilitazione, preparata con settimane di prove, e organizzata con grande dispendio di mezzi per assicurare la partecipazione “spontanea” di lavoratori e studenti, non era indispensabile ed ha rappresentato uno sforzo economico insopportabile per un paese che conosce grandi difficoltà. Il congresso comunque durerà solo tre giorni, ma non è poco, se si pensa che deve “decidere” praticamente solo quello che il governo ha già cominciato a realizzare da molti mesi. Il dibattito è stato preparato da una consultazione in cui sono emerse 600.000 proposte di modifiche alle tesi, che è stata presentata come il massimo della partecipazione democratica; ma in realtà era solo uno sfogatoio, o al massimo un sondaggio a disposizione dei dirigenti, dato che non era possibile raggruppare le proposte e il dibattito su emendamenti o tesi alternative.

La relazione di Raúl Castro ha precisato che dei 291 punti originali 94 hanno mantenuto la stesura originaria, 181 sono stati modificati, mentre 16 sono stati fusi con altri e 36 aggiunti, portando il totale a 311. Difficile capire dalla relazione i criteri, soprattutto se si precisa che “questo processo si è basato sul principio di non far dipendere la validità di una proposta dalla quantità di opinioni che l’hanno appoggiata”. Già è singolare: se ci fosse stata una maggioranza che voleva capovolgere una proposta? Non contava? Raúl aggiunge che alcuni punti sono stati modificati partendo dalla proposta di una sola persona, mentre altri suggerimenti non sono stati accolti “in questa tappa”, perché “si vuole approfondire la tematica, o perché mancano le condizioni richieste”, ma in altri casi “per non entrare in aperta contraddizione con l’essenza del socialismo”. Il caso riguarda 45 proposte che hanno chiesto di permettere la concentrazione della proprietà”. Sic! Mica male per un congresso di un partito comunista…

Alcuni commentatori ostili hanno interpretato la parte militare della sfilata come un’intimidazione, ma non è convincente, sia per la modesta dimensione della parata (circa 6.000 uomini, prevalentemente di fanteria, appoggiati dalla “esibizione di armamento e veicoli militari terrestri” oltre che da aerei ed elicotteri), sia e soprattutto perché gli sperimentatissimi criteri di selezione dei delegati dovrebbero rendere molto improbabile che il congresso possa riservare una qualche sorpresa.

Ancora nessuna informazione sul dibattito, che tra l’altro si è suddiviso subito in cinque commissioni, ma si può capire cosa si deve e si può decidere dal testo integrale della relazione di Raúl Castro (http://www.cubadebate.cu/congreso-del-partido-comunista-de-cuba/informe-... ), su cui mi sono basato. La stampa occidentale ha ironizzato soprattutto sulla proposta di limitare a un massimo di due periodi consecutivi di cinque anni la permanenza nelle cariche. Da ora, naturalmente. Detto da chi ci sta da più di cinquant’anni è bizzarro: vuol dire che si prepara a lasciare il potere allo scoccar dei novant’anni? Ugualmente poco convincente la spiegazione che manca un ricambio di “sostituti debitamente preparati”: in questi anni “non abbiamo trascurato di tentare di promuovere giovani a incarichi di primo piano, ma la vita (sic!) ha dimostrato che le scelte non furono sempre giuste”…

Un altro punto saliente, verso la fine della relazione, riguarda le “necesidades espirituales”, che vengono sottolineate partendo da riferimenti all’eroe nazionale José Martí, che nella sua vita sintetizzava la “congiunzione di spiritualità e sentimento rivoluzionario”, e poi, passando per il padre Félix Varela, e per varie citazioni di riconoscimenti di Fidel a sacerdoti e pastori protestanti, o a combattenti cattolici della prima fase della rivoluzione, Raúl arriva a un riconoscimento esplicito del ruolo del cardinale Jaime Ortega e del Presidente della Conferenza Episcopale Monsignor Dionisio García nella liberazione dei “prigionieri controrivoluzionari che in tempi difficili hanno cospirato contro la Patria al servizio di una potenza straniera”. Evidentemente l’elogio alla Chiesa, che grazie all’immobilismo del governo si è rafforzata molto in questi anni e con cui nessuno può pensare a una rottura, vuole tappare la bocca ai conservatori, che non condividono il modestissimo e tardivo atto di clemenza, e fingono ancora di credere che quei dissidenti fossero pericolosi agenti stranieri, come del resto ribadisce poco coerentemente Raúl, che peraltro accenna alle pressioni per esiliare in Spagna i prigionieri liberati nel ringraziamento all’ex ministro degli Esteri spagnolo Miguel Ángel Moratinos.

In mezzo alla lunga relazione, solo poche parole generiche sulla situazione internazionale, presentata naturalmente come pericolosa, ma con il contrappeso delle relazioni amichevoli di Cuba con ben “101 nazioni del Terzo Mondo” (ma il “Secondo” dov’è finito?). Generico anche il richiamo alla rivoluzione bolivariana e a Hugo Chávez, unico capo di Stato nominato, e ancor più quello alle “aspirazioni dei movimenti trasformatori in vari paesi latinoamericani, capeggiati da prestigiosi leader che rappresentano gli interessi delle maggioranze oppresse”. Neanche una parola nell’analisi ai problemi che stanno incrinando la forza di questi movimenti, o li stanno mettendo in conflitto con i governi. Non è un tema da discutere in pubblico…

Poi tante banalità: ad esempio sulla “necessità di scrivere articoli intelligenti”, eliminando il “trionfalismo” e il “formalismo”, per “catturare l’attenzione e stimolare il dibattito “. Ma come? “Elevando la professionalità dei nostri giornalisti”. Ma, ammette Raúl, nonostante le decisioni prese dal partito sulla politica informativa, “nella maggioranza dei casi essi non hanno l’accesso opportuno all’informazione, né il contatto frequente con i quadri e specialisti responsabilizzati sulle varie tematiche. La somma di questi fattori spiega la diffusione, in non poche occasioni, di materiali noiosi, improvvisati e superficiali”. Idem per radio e televisione. Ma è ridicolo pensare che questa caratteristica costante che rende penosa l’informazione a Cuba si possa risolvere ricorrendo ai “quadri responsabilizzati”, mentre gran parte dei presunti dissidenti sono stati arrestati per aver tentato di mettere in circolazione opinioni e analisi diverse, e proprio con l’aggravante di non essere usciti dalle scuole ufficiali di giornalismo, guidate da quei “quadri”… E quanto all’accesso opportuno all’informazione, basterebbe ridurre i controlli su internet affidati a un gran numero di membri della Seguridad…

Poco convincente anche la proposta di “accompagnare la attualizzazione del Modello Economico e Sociale” semplificando e armonizzando il contenuto di centinaia di risoluzioni ministeriali, decisioni del governo, decreti-legge e leggi, per proporre conseguentemente, al momento opportuno, l’introduzione di aggiustamenti adeguati nella stessa Costituzione della Repubblica. Chi lo farà? Naturalmente una “Commissione permanente del Governo” subordinata al Presidente del Consiglio di Stato e dei ministri…

E quando si propone di “ridurre sostanzialmente la nomenklatura” (sic) si precisa che vanno delegati a “dirigenti ministeriali e impresariali” i compiti di “nomina, sostituzione e applicazione di misure disciplinari nei confronti dei capi subalterni”. Ci saranno ancora le “commissioni di quadri”, in cui il partito è presente, ma le presiede il dirigente amministrativo, che è quello che decide. L’opinione dell’organizzazione di partito è valida, ma il fattore determinante è il capo, dal momento che dobbiamo preservare e potenziare la sua autorità”, sia pure in armonia col partito. Sembra incredibile, ma questo dice testualmente la relazione di Raúl. Per chi avesse dubbi su una mia forzatura, riporto di seguito il periodo integralmente nella forma originale: “En esta esfera estamos empezando con un primer paso, al reducir sustancialmente la nomenclatura de los cargos de dirección, que correspondía aprobar a las instancias municipales, provinciales y nacionales del Partido y delegar a los dirigentes ministeriales y empresariales facultades para el nombramiento, sustitución y aplicación de medidas disciplinarias a gran parte de los jefes subordinados, asistidos por las respectivas comisiones de cuadros, en las cuales el Partido está representado y opina, pero las preside el dirigente administrativo, que es quien decide. La opinión de la organización partidista es valiosa, pero el factor que determina es el jefe, ya que debemos preservar y potenciar su autoridad, en armonía con el Partido.”

Per il resto tanti appelli al buon senso, a “tenere i piedi in terra”, ecc., o a generiche “deficienze nella politica di quadri” che dovranno essere esaminate non dal congresso ma da una futura Conferenza nazionale del partito, perché “non poche lezioni amare ci sono venute dalle delusioni sofferte per mancanza di rigore e di comprensione, che hanno aperto brecce per la promozione accelerata di quadri inesperti e immaturi, a forza di simulazioni e opportunismo”. Ma chi era responsabile del sistema verticistico, burocratico, basato sulla cooptazione dal vertice, ricalcato su quello sovietico? Non solo non si fa la minima autocritica, ma si dice che questi atteggiamenti erano alimentati anche dall’erroneo concetto di esigere tacitamente che per occupare un incarico di direzione, fosse necessaria la militanza nel Partito o nella Gioventù comunista”. Non è plausibile l’analisi, ma è assurda la soluzione, che non è la democrazia nel partito e nel paese (cioè in primo luogo la fine del partito unico monolitico…), ma l’allargamento della cerchia da cui scegliere i quadri per cooptarli nella direzione anche ai cosiddetti “senza partito”, esattamente come era nell’URSS staliniana e poststaliniana… Se il partito comunista fosse veramente tale, chi ne rimane fuori fino all’eventuale designazione a un incarico sarebbe verosimilmente ancora più permeabile ai vizi della “simulazione e dell’opportunismo”.

Unici accenni a proposte concrete sono quelli alla sperimentazione di due nuove province, Mayabeque e Artemisa, staccate da quella dell’Avana (ma è una misura davvero concreta?), alla possibile fine del divieto di compravendita di case e auto (ma chi può beneficiarne?), e soprattutto alla discussione sulla “libreta”, cioè la tessera che garantisce a tutti un minimo di generi alimentari indispensabili a prezzo calmierato”. Questo punto della discussione ha coinvolto il maggior numero di interventi, tra gli 8.913.838 che avrebbero partecipato al dibattito (cifra che appare sparata come al solito, come quelle dei plebisciti sul permanente carattere socialista della rivoluzione, nella certezza che nessuno potrà mai smentirla, anche se nessuno ci crederà…). Si capisce che la libreta è stata difesa strenuamente, dato che “due generazioni di cubani hanno trascorso la loro vita sotto la protezione di questo sistema di razionamento che, nonostante il suo nocivo carattere egualitario, ha offerto per decenni a tutti i cittadini l’accesso a alimenti di base fortemente sussidiati”. Ma che l’intenzione del governo sia quella di cancellarla, è evidente, dato che la si accusa di rappresentare “un carico insopportabile per l’economia, e un disincentivo al lavoro, oltre a generare diverse illegalità nella società”. Quella del “disincentivo al lavoro” la può raccontare solo chi non sa neppure cos’è la libreta perché beneficia da sempre dei negozi riservati alla nomenclatura. Nessuno potrebbe sopravvivere con quel poco che la tessera assicura (e non sempre…), rinunciando a lavorare.

In poche parole, rinviando ovviamente un commento complessivo al periodo successivo alla conclusione del dibattito e alla pubblicazione dei Lineamentos emendati, penso si possa già concludere che alla faccia di tutte le denuncie del “trionfalismo” e del “formalismo” la relazione non ha affrontato neppure una delle questioni fondamentali. Se il congresso riuscirà a farlo indipendentemente dalle intenzioni del vertice, sarà una conquista straordinaria, che rivelerà la vitalità della rivoluzione cubana nonostante i limiti dell’attuale gruppo dirigente (di cui è un simbolo la scelta di far aprire il congresso da José Ramón Machado Ventura, che non solo ha compiuto da un po’ 80 anni, ma non ha mai brillato neanche in passato per vivacità intellettuale…).

martedì 19 aprile 2011

ELEZIONI COMUNALI DI TORINO Le candidate e i candidati di Sinistra Critica


1 LOIACONO Pasquale operaio delegato Fiat Carrozzerie
2 VISINTIN Antonella impiegata nell’editoria, ambientalista
3 NGANDU Mukendi detto Gippò ricercatore precario
4 FRANZOSO Antea universitaria del Politecnico
5 AIROLDI Lorena impiegata
6 ALESSANDRIA Adriano Lorenzo operaio delegato della Lear
7 BIROLO Sergio rappresentante di commercio
8 BONI Edoardo lavoratore Aem distribuzione
9 BRASCHI Massimo lavoratore Terna
10 CARLIN Giulia storica dell’arte
11 BRESCIA Salvatore detto Rodolfo operaio
12 CALCAGNO Oliviero operatore culturale
13 CARDELLA Tiziana lavoratrice/ studentessa universitaria
14 CARLIN Giorgio ex lavoratore RAI
15 CAVALLARO Massimo lavoratore precario
16 CERESI Barbara architetta
17 DELLI FALCONI Ignazio veterinario
18 CHIESA Nadia operatrice artistica
19 FALCHI Franco Antonio docente istituzioni paesi mussulmani
20 FRANZOSO Giuseppe Cesarino ex lavoratore Alenia
21 CIRILLO Lidia Maria ricercatrice, teorica del femminismo
22 GIACHETTI Diego Giuseppe insegnante, saggista
23 GLORIOSO Diego ex lavoratore CF gomma
24 MARRANDINO Generoso operaio Mirafiori presse
25 CONA Lucrezia pensionata
26 MARTINO Giovanni operaio Kuehne Nagel
27 COTTA RAMOSINO Marta studentessa universitaria
28 MASERA Stefano location manager
29 MASSARENTI Fabio operaio comprensorio Chivasso
30 CRIPPA Elisabetta maestra elementare
31 RINAUDO Fabio operaio edilizia stradale
32 RUTO Rinaldo operaio
33 POLLEGHINI Ada animalista
34 SIRACUSA Liborio lavoratore precario
35 SPINA Marco lavoratore precario
36 VALFRE' Monica lavoratrice
37 STRAMAZZO Aljossa impiegato Gruppo Generali assicurazioni
39 TANGOLO Giovanna detta Gianna docente, ex consigliera provinciale
39 TURIGLIATTO Franco impiegato, ex senatore
40 ZINI Virginia Rosa interprete

Il governo fa marcia indietro sul nucleare


Presentato un emendamento al Senato per cancellare le disposizioni già approvate in materia di centrali nucleari in modo da far saltare la consultazione referendaria. Per Greenpeace è una "furbata"


++ NUCLEARE: STOP GOVERNO A REALIZZAZIONE CENTRALI ++
Il Governo ha deciso di soprassedere sul programma nucleare ed ha inserito nella moratoria già prevista nel decreto legge omnibus, all'esame dell'aula del Senato, l'abrogazione di tutte le norme previste per la realizzazione di impianti nucleari nel Paese.
L'emendamento all' articolo cinque del decreto omnibus, presentato direttamente in Aula in mattinata e non inserito nel fascicolo degli emendamenti prestampati, afferma che «al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche, non si procede alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare». L'emendamento, presentato all' ultimo momento, nelle intenzioni del governo avrebbe l'effetto di superare il referendum sul nucleare fissato a giugno e temuto dalla maggioranza.

L'EMENDAMENTO DEL GOVERNO
«Abrogazione di disposizioni relative alla realizzazione di nuovi impianti nuclearì. È questo il titolo dell'emendamento al dl omnibus presentato nell'aula del Senato dal governo dove si stabilisce che»al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche sui profili relativi alla sicurezza nucleare tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea non si procede alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare«. L'emendamento, dopo aver definito nel dettaglio i vari punti da abrogare del testo del governo sulla moratoria nucleare per un anno, riafferma che "entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge il Consiglio dei ministri adotta la strategia energetica nazionale nella definizione della quale il consiglio dei ministri tiene conto delle valutazioni effettuate a livello di Unione Europea e a livello internazionale in materia di scenari energetici e ambientali«. Si sposta sempre di un anno la valutazione alla luce anche degli stress test che fra breve saranno effettuati in Europa della praticabilità del ricorso a varie fonti energetiche.

GREENPEACE, SOLO FURBIZIA PREVENTIVA DA GOVERNO
Il Governo «ha paura dell'opinione degli elettori. E' un caso di 'furbizia preventivà che coglie un dato reale: la forte opposizione degli italiani al nucleare». Lo afferma il direttore di Greenpeace Italia, Giuseppe Onufrio, commentando lo stop al programma nucleare deciso dal governo. «Molti dei commenti di ministri ed esponenti della maggioranza - aggiunge - svelano il 'trucco": cercare di prendere tempo, abrogando solo alcuni punti della legge, per evitare che gli italiani si esprimano attraverso il referendum e poi tornare a riproporre il nucleare tra un anno. Questa truffa non è accettabile. Piuttosto che continuare con queste manovre dilatorie, il Governo dovrebbe abrogare una volta e per sempre tutta la legge sul nucleare, prendendo impegni solenni per promuovere le fonti rinnovabili e l'efficienza energetica». Quindi, conclude Onufrio, «se il Governo italiano volesse fare seriamente dovrebbe reintrodurre gli incentivi sulle fonti energetiche rinnovabili, al momento completamente paralizzate dallo scellerato decreto Romani. Greenpeace chiede di adottare il sistema tedesco, alzando gli obiettivi per l'eolico e il fotovoltaico».

domenica 17 aprile 2011

I guai della Fiom


A Melfi i delegati vogliono firmare l'intesa con la Fiat sui ritmi produttivi. Alla Bertone c'è il muro dell'azienda e Camusso riapre il dialogo con Confindustria


Salvatore Cannavò
da Il Fatto quotidiano
Segnali distensivi tra Cgil e Confindustria, mentre la Fiom soffre per gli scricchiolii interni. È una giornata movimentata nelle relazioni sindacali quella di ieri: l’incontro di Susanna Camusso con Emma Marcegaglia; l’accelerazione impressa da Fiat e Fim, Uilm, Fismic alla vertenza sulla ex Bertone; la lettera con cui 11 delegati Fiom su 18 hanno chiesto al sindacato di Maurizio Landini di firmare l’accordo in azienda sui ritmi di lavoro e le pause tanto contestato nei mesi scorsi.

Susanna Camusso ed Emma Marcegaglia si sono viste al mattino, nella foresteria della Confindustria di via Veneto. Incontro molto positivo, raccontano. Le due dirigenti si sono viste più volte negli ultimi mesi, e ancora lo faranno dopo lo sciopero del 6 maggio. Alla leader degli imprenditori, il segretario della Cgil ha illustrato il suo progetto di riforma della contrattazione, anche se non è ancora definitivo visto che sarà il direttivo nazionale del 10 e 11 maggio ad approvarlo. Niente deroghe ma contratti nazionali più leggeri per dare fiato al secondo livello e soprattutto una riforma della rappresentanza che certifichi i sindacati rappresentativi e introduca una forma di esigibilità degli accordi: una volta siglate le intese, insomma, i contratti si rispettano e niente scioperi. Non è un caso che proprio sulla rappresentanza si sia soffermata la chiacchierata con Marcegaglia che ha ascoltato con attenzione le idee di Camusso anche se entrambe hanno riconfermato le divergenze sul modello contrattuale del 2009 siglato solo da Cisl e Uil. Quel modello, però, sta per scadere ed è stata la stessa Confindustria qualche mese fa a dirsi disponibile a “fare il tagliando” all’intesa. Ieri Camusso ha spiegato a Marcegaglia che la Cgil quel tagliando è pronta a discuterlo. Tanto più se la linea sindacale che nella Cgil ha fatto finora ombra alla segreteria nazionale, cioè quella della Fiom, comincia a subire degli scricchiolii.

A Melfi, cuore di una dura vertenza con la Fiat, si sta discutendo l’applicazione del cosiddetto sistema Ergo-Uas che, modificando le postazioni di lavoro dovrebbe consentire un aumento dei ritmi produttivi con la diminuzione delle pause da 40 a 30 minuti. L’intesa sull’applicazione del modello è stata siglata una settimana fa e la Fiom, dopo aver apposto la sua firma, ha dovuto sospenderla in seguito all’intervento della segreteria nazionale. Intervento che non sembra aver convinto i delegati locali che ieri, in 11 su 18, hanno inviato una lettera al segretario nazionale Maurizio Landini per chiedere che la Fiom firmi quell’intesa. “É il frutto della pressione cui la Fiat sottopone i delegati” spiega Giorgio Cremaschi, esponente della sinistra Cgil, che racconta le avances ricevute da parte degli operai più “duri”.

Ma conta anche la difficoltà a tenere aperta una vertenza senza risultati immediati. Difficoltà che potrebbe acuirsi con il caso piemontese della ex Bertone, oggi Officine Automobili Grugliasco, rilevata dalla Fiat un anno e mezzo fa per produrre la Maserati.
Marchionne vuole l’applicazione integrale degli accordi di Pomigliano e Mirafiori ma alla ex Bertone la Fiom ha il 62 per cento dei consensi e quindi si imporrebbe un accordo. Ma la Fiat non vuole mediazioni, chiede il modello “Fabbrica Italia” e ieri ha comunicato anche che non pagherà gli anticipi di cassa integrazione per i circa 1100 operai dell’azienda chiusa nel 2009 se il ministero non autorizzerà il decreto. Fim, Fismic e Uilm, che ieri hanno visto l’azienda, chiedono alla Fiom di indire il referendum ma la Fiom cerca di tenere botta sapendo che il suo svolgimento si terrebbe ancora sotto la spada di Damocle della chiusura dell’azienda. La resa dei conti sembra inesorabile anche perché Landini non ha intenzione di firmare nulla che ricalchi accordi già respinti. E ieri la Fiom non ha firmato l’intesa sui permessi sindacali giudicandola restrittiva.

venerdì 15 aprile 2011

Una morte che pesa come una montagna


La perdita di Vittorio Arrigoni è enorme e straziante. Ma dobbiamo rispondere con forza che non ci faremo terrorizzare, che continueremo il nostro impegno a fianco della resistenza palestinese


Piero Maestri
L’uccisione di Vittorio Arrigoni è una di quei fatti che ti prende lo stomaco e ti lascia senza fiato: perché Vittorio era una bella persona, per le modalità in cui è avvenuta, per le tragiche conseguenze che avrà, oltre al fatto in sé, per la Palestina e i palestinesi.

Vittorio è stata una presenza importante in questi ultimi anni, da quando aveva deciso di rimanere a Gaza (unico italiano) durante l’offensiva israeliana denominata “Piombo fuso”, nel dicembre 2008/gennaio 2009. Le sue testimonianze dalla Striscia di Gaza sottoposta ad un feroce e criminale bombardamento erano per noi una delle poche fonti “dal basso” che ci raccontavano la realtà della violenza che subisce quotidianamente la popolazione palestinese.

Le sue attività insieme ai palestinesi - dalla protezione dei contadini del nord della Striscia che cercano di difendere la loro terra dall’espropriazione “per motivi di sicurezza” all’accompagnamento delle barche di pescatori a cui la Marina israeliana impedisce l’uscita in mare, alla relazione quotidiana con le famiglie palestinesi e con quei giovani che sono stati protagonisti delle manifestazioni dello scorso 15 marzo – hanno rappresentato allo stesso tempo l’esempio di una solidarietà umana e politica e la dimostrazione che i palestinesi non sono soli.

Abbiamo continuato ad ascoltare con interesse e partecipazione i racconti di Vittorio, dal suo blog, nelle telefonate in diretta nei molti presidi nelle città italiane che si collegavano in diretta con lui a Gaza, nelle corrispondenze con le radio ancora libere di questo paese in cui l’informazione è un disastro (soprattutto nei confronti dell’”invisibile” Striscia di Gaza).

La sua morte ci priva di tutto questo, ed è una perdita enorme.

Il rispetto per il suo impegno ci impone comunque di provare a capire, per ricordarlo nel migliore dei modi e per continuare il suo e nostro impegno a fianco della resistenza palestinese (quella dei gruppi politici, ma soprattutto dei contadini, dei pescatori, degli studenti, dei medici ecc...).

Non ci entusiasma il gioco del “cui prodest?” e non crediamo che il gruppo salafita responsabile della morte di Vittorio sia semplicemente una “invenzione” israeliana.

Purtroppo la disperazione e il peggioramento delle condizioni di vita e la chiusura degli spazi politici dei palestinesi – soprattutto nella prigione di Gaza – lascia vuoti che vengono riempiti da gruppi iper-minoritari ma che possono fare danni enormi. Naturalmente Israele ha tutto l’interesse che questi gruppi esistano, perché dividono ulteriormente la resistenza palestinese, rappresentano l’ennesima giustificazione per le sue politiche criminali e danno un’immagine terribile (naturalmente falsa) dei palestinesi. Per questo ci risultano odiose le “assoluzioni” preventive di chi come sempre getta addosso ai palestinesi tutte le responsabilità della loro terribile condizione – e in genere sono gli stessi che accusano i pacifisti di fare il gioco dei “terroristi”: la morte di Vittorio risponde anche a loro, alla loro insistente domanda “dove sono i pacifisti?”.

L’assassinio di Vittorio potrebbe fare male alla causa palestinese, perché saranno molti gli avvoltoi che cercheranno di mostrare la “disumanità” genetica dei palestinesi e/o degli islamici; potrebbe fare male perché vuole terrorizzare le/i volontari/e che vorranno seguire le orme di Vittorio – e questo interessa sia ai gruppi fondamentalisti che non vogliono una Palestina aperta al mondo, sia a Israele che vuole rendere ancora più invisibile e assediata la Striscia di Gaza, come dimostrano i suoi tentativi di fermare la Freedom Flottilla (subito seguiti dei loro amici come Berlusconi); potrebbe fare male perché i palestinesi si sentiranno ancora più soli.

A questo punto siamo noi che dobbiamo rispondere con forza che non ci faremo terrorizzare, che continueremo il nostro impegno a fianco della resistenza palestinese; che continueremo a costruire un ponte tra i giovani palestinesi che esprimono la loro necessità e volontà di liberazione (come i giovani tunisini, egiziani, libici, siriani che stanno in questi mesi facendo le loro rivoluzioni), i militanti della solidarietà internazionale e le/gli israeliane/i antisionisti; che continueremo ad andare a Gaza, a Gerusalemme, in Cisgiordania perché sappiamo che lì saremo sempre benvenuti; che continueremo il nostro impegno alla denuncia delle politiche dell’occupazione e dell’Apartheid e delle complicità dei governi europei in queste politiche.

Questo per noi è il tentativo di restare umani.

giovedì 7 aprile 2011

La rivoluzione vista da vicino


Viaggio del Social forum mondiale in Tunisia dove la cacciata di Ben Ali non ha fermato il bisogno di cambiamento. Agli europei viene chiesto di annullare il debito e di restituire i beni sottratti dal dittatore tunisino


Gippo Mukendi
di ritorno da Tunisi
Si è concluso martedì 5 aprile il viaggio in Tunisia organizzato nell'ambito del Social forum mondiale cui ha preso parte anche una folta delegazione italiana. Tra i partecipanti anche Gippo Mukendi che ha scritto questo sintetico resoconto.

Il viaggio in Tunisia è stato piuttosto intenso sotto ogni punto di vista. La delegazione del Forum sociale mondiale era composta da nove paesi: Italia (12 presenti); Francia (Fondation Frantz Fanon); Belgio; Grecia; Marocco (associazione per i diritti umani); Spagna; Costa d'Avorio; Senegal (diverse associazioni); Brasile (due membri della Cut).

Primo giorno: venerdì 1°aprile, è cominciato a Tunisi con un'assemblea nella sede del sindacato UGTT organizzata dal Forum sociale maghrebino. Si tratta di una realtà nella quale ha un forte ruolo la componente di sinistra dell'UGTT che nei fatti ha organizzato assieme alla Ligue des droits de l'hommes i diversi incontri in Tunisia. Tra gli interventi più interessanti quello di Fethi Ben Ali Deck, coordinatore del lavoro internazionale dell'Ugtt, che ha sottolineato la necessità di continuare il processo rivoluzionario di fronte a coloro che vorrebbero bloccare la transizione in corso senza porre al centro la questione sociale; quello di un giovane studente tunisino che ha fatto il quadro della situazione tra i giovani tunisini ponendo al centro la lotta per il lavoro e il carattere sociale della rivoluzione oltre che l'importanza della difesa delle conquiste democratiche che rappresentano una vera e propria liberazione; l'intervento di una esponente di Attac-Tunisia ha insistito sul ruolo fondamentale delle donne nel processo rivoluzionario e ha posto il problema della solidarietà internazionale sottolineando l'importanza della campagna per l'annullamento del debito e per il congelamento e la restituzione dei beni sottratti da Ben Ali e dalla sua cricca alla collettività. Da sottolineare altri due interventi dell'Associazione des Femmes Démocrates che hanno sottolineato l'importanza di difendere lo statuto delle donne che gli islamisti (salafiti in particolare) vorrebbero abrogare.
Dopo l'incontro, il tempo di vedere l'animata place Burghiba, vera e propria nuova agorà della capitale, e il tempo di vedere l'avvio della manifestazione della cosiddetta Casbah si è subito partiti per Kasserine.

2° giorno, Kasserine: è la città dei "martiri della rivoluzione", si trova nel cuore della Tunisia. Storicamente ribelle con una forte componente berbera, invisa a di Ben Ali che nel 1994 fu accolto da un folto lancio di patate, ha pagato un altissimo prezzo alla rivoluzione: 70 morti in gran parte giovanissimi. Oggi molti di quei giovani sono in sciopero della fame da due settimane. La richiesta che fanno è il lavoro. In una città di 74.000 abitanti sono, infatti, circa 11.000 i disoccupati. In gran parte hanno un diploma o sono laureati. Nella tenda allestita in piazza c'è un'econometrista, un architetto, un geografo... . Per loro non ci sono segnali di cambiamento, così come i familiari delle vittime della rivoluzione che abbiamo ricevuto nella sede dell'Ugtt, dove la componente di sinistra sembra maggioritaria soprattutto tra gli insegnanti. L'incontro è piuttosto toccante, i parenti chiedono giustizia per i loro figli. I segnali, tuttavia, non sono incoraggianti. Fino ad ora nessun poliziotto è sotto processo, mentre il nuovo governatore proveniente da Tunisi è un uomo dei vertici militari. La polizia segreta (ben 1 milione di effettivi in un paese che ha poco meno di 11 milioni di abitanti) non è stata disciolta e continua nelle sue provocazioni.
La questione sociale è, del resto, esplosiva. Oltre la forte disoccupazione, i salari sono bassissimi. Le più arrabbiate sono le donne. Nei campi, dove il lavoro è per forza stagionale, riescono a guadagnare 120 dinari (60 euri ) al mese, se va bene. Ed è con questo misero salario che mantengono la famiglia e pagano gli studi ai loro figli nella speranza di un futuro migliore. Per loro la rivoluzione è stata, soprattutto, la rivoluzione della dignità, ma ciò non basta, occorre continuare. Da notare la forte diffidenza nei confronti dei partiti, percepiti come distanti, estranei alla rivoluzione, mentre la sinistra riesce a intervenire grazie al sindacato che gode di molto rispetto e nel consiglio degli avvocati che anche durante i tempi di ben ali era l'unica struttura eletta democraticamente.

3° giorno: dopo una tappa notturna a Gafsa, che molti conosceranno per i grandi scioperi del 2008, siamo subito risaliti a Sidi Bouzid, oramai famosa per l'azione di Mohammed Bouazizi, il giovane avvocato disoccupato che si è dato fuoco il 17 dicembre dopo le continue vessazioni della polizia. Diversamente da Kasserine, il sindacato è meno in sintonia con la rabbia dei giovani disoccupati. Il segretario regionale è, d'altro canto, un ex benalista. Tra le forze di sinistra è comunque ben presente il Parti communiste des Ouvriers Tunisiens, un'organizzazione di origine maoista. Sono presenti in tutta la regione, anche nella città di Regueb, dove la struttura sindacale di base è decisamente a sinistra. Ta le forze più organizzate all'interno del Fronte 14 gennaio (coalizione di partiti e forze sociali diverse su una impostazione anticapitalista, ndr.) ma diversamente dalle altre forze rivoluzionarie e anticapitaliste è favorevole ad un dialogo con gli islamisti, il che è decisamente preoccupante. I membri del partito salafita, (Partito della liberazione), infatti, non perdono l'occasione per aggredire durante le manifestazioni le donne senza velo e manifestano apertamente il loro antisemitismo. il partito islamista principale (Ennahda) si presenta invece con un volto più moderato, ma come ha sottolineato Fethi:"E' per la democrazia, ma una sola volta".

4° giorno, campo profughi di Coucha: si trova a 8 km dal confine della Libia, mentre a 6 km c'è un altro campo profughi gestito dagli Emirati Arabi. Al campo ci sono 8.000 persone, soprattutto lavoratori del Ciad e del Sudan ( circa 4.000). Molti sono gli africani che lavoravano in Libia e i cui governi non pagano l'aereo per il loro ritorno, mentre ai somali è riconosciuto lo status di rifugiati politici. Il campo è ben organizzato, anche se ci sono delle tensioni e si avverte un po' di razzismo nei confronti dei "neri". Del resto comincia a scarseggiare l'acqua potabile e qualche organizzazione internazionale fa la furbetta.
Riguardo a quello che avviene in Italia i giudizi sono diversi. Molti militanti, infatti, spingono i giovani a rimanere in Tunisia per continuare la rivoluzione. Molti si aspettano che nelle mobilitazioni per la piena accoglienza dei profughi e per le frontiere aperte venga raccolta la richiesta di cancellazione del debito e della confisca e restituzione dei beni di Ben Ali e soci.
E' evidente che la rivoluzione rischia di avere una battuta di arresto che può influire sugli altri paesi soprattutto qualora non ci fosse alcuna risposta ai giovani disoccupati e alle massi povere delle città del centro sud. Per ora regge ancora il vento della libertà ma non è detto che cambi direzione. La rivoluzione è giustamente un processo che può avere diverse fasi, svolte e controsvolte.
Un viaggio importante, dunque, in totale, abbiamo percorso più di 1450 km e lunedì, ultimo giorno, non è mancata una cena a base di pesce. I tunisini, oltre ad avere dei tempi molto mediterranei, sono anche molto ospitali.

mercoledì 6 aprile 2011

Ritorno a Manduria


Reportage dalla tendopoli pugliese dove i migranti tunisini vengono tenuti a bada in disprezzo del diritto e in condizioni spesso inumane


Gianni De Giglio
da Manduria
Dopo la manifestazione di sabato scorso, con i migranti tunisini usciti dal campo al grido di "libertè, liberté", siamo tornati a Manduria. Grazie alla protesta, che ha permesso ai migranti di sostare davanti al campo senza filtri della polizia, trascorrere qualche ora lì ti permette di incontrare e conoscere i tunisini, parlare con loro e rendersi conto in prima persona di come stanno vivendo questi giorni.

Le loro condizioni non sono per nulla buone, il cibo puzza ed è poco; non vengono trattati come persone ma si sentono guardati e giudicati dall'alto verso il basso soprattutto dalle forze dell'ordine. Sono tutti (nessuna donna è presente al campo) costretti a farsi identificare rilasciando nome, cognome ed impronte digitali scegliendo di firmare il C3, un permesso di soggiorno temporaneo della durata di tre mesi, che permetterebbe loro di circolare in Europa, oppure la richiesta di asilo politico che può essere rilasciato per un tempo di 1, 3 o 5 anni. Il paradosso, di cui ormai tutti si stanno accorgendo, è che facendo richiesta di asilo (molto meno precario del permesso di soggiorno.), a causa dell'Accordo di Dublino, una volta riconosciuto (e se riconosciuto!), sono costretti a rimanere nel paese in cui hanno fatto richiesta, cioè in Italia. Dato che la maggiorparte di loro non vuole rimanerci (parlano francese, hanno parenti altrove) si ritrovano di fronte a un dilemma: scegliere il permesso temporaneo di appena tre mesi, vivere alla giornata e poter viaggiare per l'Europa oppure avere una minima stabilità e certezza di permanenza con l'asilo, ma essere costretti contro la propria volontà a rimanere in Italia.

Alle condizioni al limite dell'umano in cui vivono nella tendopoli, oltre al fatto che sono soli, senza punti di riferimento famigliari, lavorativi, ecc. sono costretti anche a sopportare uno stress psicologico non da poco.
Nessuno di loro è stato informato su cosa abbiano firmato. Sabato 9 aprile si terrà un'assemblea davanti al campo che, a questo punto, diventa un'occasione per supportarli ed informarli sui loro diritti in modo da favorire maggiore consapevolezza rispetto alle decisioni che dovranno prendere. Daltronde hanno già dimostrato la capacità di ribellarsi per rivedicare libertà ed asilo.

La sera, se cercano di allontanarsiper provare a proseguire il viaggio per il nord, nei paesi vicini o nelle stazioni, vengono caricati nei bus con forza e riportati nel centro. Mentre eravamo al campo ne è arrivato uno con 50-60 migranti a bordo.
Ci sono volontari, e non ronde!, che quotidianamente portano vestiti, scarpe, sapone, cibo e tutto ciò che occorre. Ancora una volta semplici cittadine e cittadini (spesso sono le stesse persone, autorganizzate in comitati, che fanno battaglie contro discariche ed inceneritori in zona) che si stanno sostituendo alle istituzioni e allo Stato, anche se la ditta per la gestione della tendopoli percepisce per ogni migrante 35 euro al giorno! Si tratta della "Connecting people", che non ha vinto nessuna gara d'appalto, ma ha ricevuto un incarico diretto per sei mesi, prolungabile per un anno! Questo confermerebbe che la tendopoli è destinata a perdurare nel tempo e non a chiudere entro un mese. D'altronde è di oggi la notizia dei primi sbarchi a Lampedusa di persone libiche.

venerdì 1 aprile 2011

Il "capitalismo verde" alla prova dei fatti


Su Micromega, "L'impossibile capitalismo verde" di Daniel Tanuro. Una critica serrata all’approccio "green economy", alle teorie della decrescita, ma anche alle ambiguità produttiviste del marxismo


Marco Zerbino
(da Micromega-online)
«Il modello attuale ha ormai toccato il fondo dei suoi limiti, sia per il miglioramento delle condizioni di vita che è in grado di offrire ai più poveri, sia per l’impronta ecologica che possiamo imporre al pianeta, ma i miei clienti investono solo se ci sono aspettative di profitto, e questo non cambierà». Economista e banchiere della Deutsche Bank, coordinatore della Green Economy Initiative, un progetto di ricerca del Programma Onu per l’Ambiente teso a dimostrare che “la riconversione ecologica dei sistemi economici non è un freno per la crescita, ma piuttosto una nuova forza motrice di essa”, Pavan Sukhdev ha forse deluso i suoi “clienti” (e con ogni probabilità anche i suoi datori di lavoro) pronunciando nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano francese Le Monde [1] parole così inequivocabili e lapidarie. Ce lo immaginiamo mentre si allenta il nodo alla cravatta, sospira e si lascia andare sullo schienale della poltrona, per poi dare sfogo a tutto il suo amaro scetticismo di fronte all’imbarazzato cronista in attesa del parere dell’esperto. L’esperto, una volta tanto, ha parlato chiaro, centrando il nocciolo di un problema al quale molti altri commentatori e studiosi (per non parlare della classe politica e di quella imprenditoriale) semplicemente girano attorno: che rapporto c’è fra la crisi ecologica globale (e il fenomeno del riscaldamento climatico in particolare) e quel determinato modo di produrre e consumare che va sotto il nome di “capitalismo”? In termini meno teorici e più pratici, la questione potrebbe anche essere riformulata nel modo seguente: è possibile contrastare efficacemente l’emergenza climatica senza sacrificare il legittimo diritto allo sviluppo di quanti e quante non hanno niente, o molto poco, e che tuttavia di quell’emergenza sono anche le principali vittime?

Secondo Daniel Tanuro, autore del volume L’impossibile capitalismo verde. Il riscaldamento climatico e le ragioni dell’eco-socialismo (Alegre, Roma 2011, pp. 224, € 16,00), si tratta del “rompicapo del secolo”. Attenendoci alla nostra seconda formulazione, la sua risposta, in estrema sintesi, è la seguente: “dipende da cosa intendiamo per sviluppo”. Se per sviluppo si intende una crescita economica illimitata, sul tipo di quella che ha caratterizzato i paesi dell’Occidente capitalistico e il Giappone, e che caratterizza impetuosamente oggi i paesi emergenti, la risposta è: no. Non si può pensare di stabilizzare il clima nel quadro economico dato, assecondando cioè la logica del “produrre per produrre” e del “consumare per consumare”, ovvero senza mettere in discussione il dogma della crescita, di per sé irriguardosa del consumo complessivo di materia e di energia e dei limiti fisici (la cosiddetta carrying capacity o “capacità di carico”) del pianeta. “Eccone un altro!”, dirà il lettore impaziente, “l’ennesimo sostenitore della ‘decrescita’, che vorrebbe farci tornare tutti quanti a zappare l’orto e a fare il pane in casa!”.

Decrescere o morire?

Calma. Tanuro ci tiene a smarcarsi da teorie molto in voga negli ultimi tempi, in special modo Oltralpe, cui pure riconosce dei meriti. L’ubriacatura antisviluppista o, per ricorrere ad un orribile neologismo, “decrescentista”, che affligge alcune componenti della sinistra italiana e francese da circa un decennio, gli è in realtà del tutto aliena. Ce ne accorgiamo se passiamo a considerare la prima formulazione del nostro rompicapo: che rapporto c’è fra il riscaldamento climatico e le leggi che regolano il funzionamento del capitalismo? Tanuro non ha dubbi: “Se per ‘capitalismo verde’ si intende un sistema in cui i parametri qualitativi, sociali ed ecologici sarebbero tenuti spontaneamente in considerazione dai tanti capitali concorrenti […] allora si naviga nella più completa illusione. Dovrebbe, infatti, trattarsi di un capitalismo nel quale non avrebbe più corso la legge del valore, cosa che è una contraddizione in termini. Immaginare che un sistema di produzione basato su questa legge possa cessare di saccheggiare le risorse naturali è altrettanto assurdo che immaginare che possa smettere di sfruttare la forza lavoro. Del resto, al di là del suo entrare in gioco in determinati contesti storici, questa forza altro non è, in ultima analisi, che una risorsa naturale fra le altre”.

Ci siamo permessi di citare estesamente questo brano perché, oltre a racchiudere il cuore dell’argomentazione dell’autore, tende a rimarcarne la distanza proprio dai teorici della decrescita. Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la copiosa produzione editoriale di un Serge Latouche, sa bene che in essa il termine “capitalismo” o non compare, a tutto vantaggio delle onnipresenti nozioni di “crescita” e di “sviluppo”, oppure compare in una forma del tutto impropria, e cioè come sinonimo di “sviluppo”, di modo che, sostiene Tanuro, “il suo anticapitalismo non è, alla fin fine, che una denuncia dello sviluppo umano”. L’apparente radicalismo di Latouche, in sostanza, conduce a esiti decisamente reazionari, oltre a non alludere a nessuna concreta proposta politica. La decrescita, di fatto, non propone un progetto di società, dal momento che insiste soprattutto su una critica culturale del consumismo. Una critica sacrosanta e indispensabile, beninteso, ma che non centra il vero problema e non mette in luce quelle che sono le cause profonde della crisi ecologica in atto (dovuta, non c’è dubbio, anche agli stili di vita iperconsumistici di una parte dell’umanità). L’approccio di Tanuro si distingue da quello degli epigoni di Latouche proprio perché, dei due lati della medaglia, produzione e consumo, egli sceglie il primo, laddove i teorici della decrescita privilegiano decisamente il secondo.

L’impossibile capitalismo verde

Di fatto, l’allarme globale sul riscaldamento del pianeta giunge dopo due secoli di massiccio sviluppo capitalistico dell’economia. Secondo Tanuro, e del resto si tratta di un fatto abbastanza evidente a chiunque voglia considerare seriamente la questione, le ragioni del “sovraconsumo” di materia e di energia che caratterizzano le società capitaliste avanzate e quelle emergenti vanno ricercate nella sovrapproduzione, cui il sistema è costretto in virtù del suo ossequio a determinate leggi.
Il capitalismo consiste nella produzione generalizzata di valori di scambio, altrimenti detti merci. L’astrazione del valore di scambio, che, spinta alle estreme conseguenze, si esprime nel denaro, è in questo sistema lo scopo e la misura di tutto. La legge del valore genera tre caratteristiche ben precise del modo di produzione capitalistico, che cozzano frontalmente con l’esigenza di regolare razionalmente e in maniera non nociva per chi verrà dopo di noi gli scambi fra esseri umani e ambiente: “[…] la produzione per il profitto, la tendenza all’accumulazione e la concorrenza tra capitali (che si manifesta anche nella rivalità fra Stati)”.

Il capitalismo non è nemmeno concepibile senza una rincorsa continua all’accumulazione e alla sovrapproduzione di merci, ed è precisamente questa sua caratteristica a renderlo un nemico giurato dell’ecosistema: la rincorsa del profitto grazie alla tecnologia implica inevitabilmente quantità sempre crescenti di merci, che si mettono in circolazione alla ricerca di una domanda solvibile. Certo, il progresso tecnologico può, in una certa misura, portare ad una riduzione della quantità di energia e materia necessarie a produrre una data unità di Pil (cioè ad una diminuzione dell’“intensità energetica” del sistema), ma questa diminuzione viene presto compensata dall’aumento del volume della produzione. Nel campo del consumo, si parla di un “effetto rimbalzo”: le lampadine a risparmio energetico consumano di meno, ma proprio per questo vengono tenute accese più a lungo, aumentando così il consumo complessivo di energia. Tuttavia, sostiene giustamente Tanuro, il fenomeno ha la sua origine nel campo della produzione. L’unico modo che il sistema ha per ridurre, di tanto in tanto, la pressione che esercita sull’ambiente sono le sue periodiche crisi di sovrapproduzione. Ma queste, com’è ben noto, comportano miseria sociale, sperpero di ricchezze e aumento delle disuguaglianze.

Alla legge del valore non sfuggono neanche le tecnologie verdi (incluse le energie rinnovabili) e i tanti stratagemmi messi in opera dalla comunità internazionale, nel quadro del protocollo di Kyoto, per contrastare il riscaldamento climatico senza uscire da una logica capitalistica e di mercato, ovvero per ottenere un’impossibile quadratura del cerchio.
L’effetto fotovoltaico è stato scoperto dal fisico francese Edmond Becquerel nel 1839, eppure lo sviluppo di questa tecnologia è pesantemente in ritardo rispetto a quelle che ne sarebbero le potenzialità. Bruciare carbone, gas naturale e petrolio costa molto meno, mentre il nucleare risulta favorito perché ha un interesse anche militare. Inoltre i combustibili fossili e l’uranio costituiscono un’energia di stock, della quale gli investitori possono impossessarsi costituendo un monopolio e quindi una sorta di rendita. Il sole, al contrario, è diffuso su tutta la superficie terrestre.
Quanto al mercato delle emissioni e a simili stratagemmi, non è possibile, in questa sede, seguire nel dettaglio l’analisi che l’autore fa della loro totale inefficacia sul piano del loro fine dichiarato, ovvero quello di ridurre la concentrazione di gas serra nell’atmosfera; basterà dire che essa è strettamente connessa al predominio del fattore quantitativo (il valore) su quello qualitativo: il mercato delle emissioni, proprio perché è un mercato, si basa solo su considerazioni quantitative, mentre non tiene nella dovuta considerazione gli elementi qualitativi indispensabili a pilotare la transizione energetica.

Ecosocialismo o barbarie

E allora? Se né la critica dell’ipertrofia dei consumi del mondo sviluppato, né il puro e semplice affidamento alle logiche capitalistiche di mercato costituiscono una risposta adeguata alla crisi ecologica e al problema del riscaldamento climatico, sorge spontanea la domanda: che fare? Come evitare di “sprofondare nell’abisso”, secondo le parole usate dal segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon?
La risposta è abbastanza semplice, purché la si voglia ascoltare. Se l’iperconsumo è dovuto a iperproduzione, e se quest’ultima è a sua volta intimamente connessa con le leggi capitalistiche del profitto e dell’accumulazione, ne consegue che sono quelle leggi a dover essere messe in discussione. Si tratta cioè di sottrarre la sfera della produzione e del consumo alla legge del valore, cosa che necessita la chiamata in causa dell’idea di una trasformazione socialista della società.

Marx, sostiene Tanuro, è molto più “eco” di quanto non pensi la maggior parte dei marxisti. La nozione chiave per dare una risposta efficace ai problemi ambientali è quella di “metabolismo sociale”, cioè di “regolazione razionale degli scambi uomo/natura”, espressa con estrema chiarezza dal filosofo di Treviri nel terzo libro del Capitale. Nel quadro di una discussione del problema dell’impoverimento dei suoli determinato dall’urbanizzazione capitalistica, Marx arriva, in linea con le teorizzazioni ambientaliste più avanzate di oggi, a porre il problema generale dello scambio di materia fra il genere umano e l’ambiente: “La libertà […] può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa” [2].

Nel passo appena citato, per “libertà” Marx intende la possibilità che l’essere umano ha di affrancarsi dal lavoro materiale. Questa viene esplicitamente condizionata alla “regolazione razionale” degli scambi fra l’uomo stesso e la natura. “Razionale”, per Marx, e anche per noi, ha qui evidentemente il doppio significato di “in linea con i progressi della scienza e della tecnica” e di “assennato”, “ragionevole”, tale cioè da non pregiudicare il futuro della natura stessa né quello, in essa, dell’essere umano. Tutto ciò, sembra chiaramente alludere all’idea, propria dell’ambientalismo più serio e consapevole, che il progresso tecnologico non è qualcosa da incensare o da demonizzare a seconda dei casi, ma semplicemente da svincolare dalla legge del valore, per metterlo al servizio dello sviluppo (che non è sinonimo di crescita economica) del genere umano nel rispetto dei limiti naturali. È senz’altro un grande merito dei teorici della decrescita quello di aver evidenziato tali limiti, contro l’idea, espressa a suo tempo da George Bush Jr. e condivisa per ovvi motivi dall’establishment economico e finanziario globale, secondo cui “la crescita non è la causa dei problemi ambientali, essa ne è la soluzione”. Ma il problema non può essere risolto se, dal lato del consumo, non ci si sposta a considerare quello della produzione, optando per una coerente visione anticapitalista.

Attenzione, però. La consapevolezza ecologica di Marx compare solo qua e là (sia pure in maniera molto chiara) nelle sue opere, e si accompagna ad un’altra visione, ad essa antitetica, di tipo più “produttivistico”. Questa entra in gioco se, dal problema dei suoli e dell’agricoltura, ci si sposta ad osservare il modo in cui Marx considera le fonti energetiche, omettendo cioè di fare una distinzione fra quelle di stock (ad es. il carbone) e quelle di flusso (ad es. il legno). Le prime sono esauribili, le seconde no. In sostanza, accanto ad uno schema ciclico evolutivo (quello, molto moderno, che Marx mostra di preferire quando considera la questione dei suoli) sembra coesistere uno schema lineare (risorsa>utilizzo>rifiuto) che è poi quello dell’economia classica. La questione energetica, secondo Tanuro, costituisce un vero e proprio “cavallo di Troia” nell’ecologia di Marx, ed è alla base del produttivismo e dell’ottimismo tecnologico dei marxismi, che infatti sono stati colti impreparati dall’esplodere del problema ambientale oramai quarant’anni fa.

In buona sostanza, l’alternativa socialista è l’unica possibile, ma va esplicitamente ridefinita in senso ecologico. Provocatoriamente, Tanuro sostiene che non si tratta di “comprendere l’ecologia nel socialismo, ma di integrare il socialismo all’ecologia”. In termini marxisti, ciò significa che, oltre all’ostacolo del profitto, c’è da rimuovere anche quello dell’accumulazione, ovvero della tendenza del sistema alla crescita economica illimitata e al crescente consumo di risorse. Per venire definitivamente alle prese con la crisi ecologica, non è sufficiente sottrarre l’economia e la produzione alla dittatura del profitto: bisogna anche rivedere tutta una serie di consumi, collettivi e individuali, per diminuire considerevolmente la quantità di energia necessaria a far marciare il sistema. Ciò è particolarmente evidente nel caso del riscaldamento globale, e l’autore lo dimostra con dovizia di argomentazioni tecniche. Da questo punto di vista, i sostenitori della decrescita hanno tutte le ragioni, pur non rendendosi conto che i problemi da loro posti sono risolvibili solo in una prospettiva socialista e anticapitalista. Inutile dire che, quando Tanuro delinea tale prospettiva, non ha in mente l’esperienza storica dello stalinismo, che anzi critica aspramente da un punto di vista politico, economico e ambientale, ma quella, tutta da costruire, di una forma di organizzazione umana che individui nei “produttori associati”, ovvero nell’economia pianificata in stretto rapporto dialettico con il controllo operaio della produzione, i “regolatori razionali” della società e della natura che verrà.

NOTE

[1] Le Monde, 3 dicembre 2008.
[2] K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 19654, L. III, p. 933.

(31 marzo 2011)