sabato 4 giugno 2011

Conferenza europea dei lavoratori dell’automobile


RAPPORTO INTRODUTTIVO
In Europa, ristrutturazioni e soppressioni di posti di lavoro si susseguono nell’industria automobilistica, uno dei settori in cui si combinano più acutamente le crisi economica, sociale ed ecologica del capitalismo. Ciò malgrado, l’industria automobilistica rimane in Europa uno dei settori industriali che impiegano, nelle fabbriche e negli uffici studi, il più grande numero di dipendenti.
La recessione del 2008-2009, che ha causato su scala mondiale, e in particolare in Europa, Nord America e Giappone, cadute storiche della produzione di vetture, è per il momento passata.
Dal 2010, la maggior parte delle multinazionali dell’auto sono tornate ai profitti, al prezzo di colpi portati all’occupazione, alle condizioni di lavoro e ai salari. In Europa, i fattori all’origine della recessione sono tuttora presenti e l’attuale ritorno ai profitti non significa l’uscita dalla crisi, in particolare per i salariati.
L’aggressione costituita dalla soppressione di posti di lavoro non deve mascherare il fatto che l’industria dell’auto europea occupa nelle sue fabbriche e negli uffici studi tre milioni e mezzo di lavoratori, cioè un decimo di tutta l’industria manifatturiera europea. I fatti e i dati sono testardi: l’industria dell’auto in Europa non è un settore in via di estinzione. Livello dell’occupazione, salari, condizioni di lavoro e rapporti di forza con i lavoratori continuano a essere poste in gioco decisive per il padronato.
Gli insediamenti industriali dell’industria dell’auto europea si sono costantemente estesi in senso geografico da cinquant’anni. Dopo i vecchi paesi imperialisti europei, sono stati la Spagna e il Portogallo a costituire negli anni 1970 nuovi territori di insediamento. Dopo gli anni 1990 è stata la volta dei paesi dell’Europa Centrale e dell’Est di essere i luoghi di costruzione delle nuove fabbriche.
Negli anni 1960 e 1970, le principali fabbriche raggruppavano decine di migliaia di operai in Germania, Francia, Italia e Inghilterra. Questa concentrazione ha favorito la creazione di rapporti di forza che facevano del settore l’elemento avanzato delle lotte operaie. Gli scontri sociali continuano, ma all’opposto, con il pretesto della sua crisi, il padronato vuole fare dell’industria dell’auto l’esempio delle sue controriforme reazionarie. Appoggiandosi sulla paura della disoccupazione, il padronato attacca i diritti acquisiti e i contratti collettivi conquistati nei decenni precedenti.
La recessione del 2008-2009 non è un semplice «incidente» dopo il quale tutta l’industria dell’auto riprende lo stesso corso con gli stessi luoghi di produzione e le stesse zone di vendita, gli stessi modi di sfruttamento dei lavoratori e le stesse società che vendono gli stessi prodotti. Bisogna esaminare le condizioni attuali dello sfruttamento dei lavoratori, con le loro forme tradizionali e le forme nuove, nel contesto della crisi che continua a minare tutte le economie capitaliste. Occorre mettere in comune le esperienze concrete nei diversi paesi europei e nelle diverse aziende per cominciare a costruire risposte comuni e coordinate.
I nuovi territori di crescita dell’industria dell’auto sempre controllata dagli stessi gruppi.
La mondializzazione capitalista dell’industria dell’auto è un processo di lungo periodo. Dai suoi inizi industriali le tecniche di produzione e le forme di sfruttamento dei lavoratori sono copiate con più o meno ritardo e con una tendenza all’internazionalizzazione crescente degli scambi. Dagli anni 1960, sono gli stessi gruppi nordamericani, giapponesi ed europei che controllano la produzione mondiale di auto. La mondializzazione non è un processo compiuto. Ogni zona geografica conosce evoluzioni differenziate, anche se le grandi recessioni hanno la tendenza a divenire sempre più sincronizzate.
Il mercato americano è segnato fin dalle origini da forti e frequenti cadute , seguite da riprese spettacolari. Il mercato europeo aveva progredito molto più regolarmente nei decenni passati e le recessioni erano molto meno marcate. Anche il mercato asiatico progredisce. Non c’è alcun precedente storico di un aumento tanto forte della domanda in un continente: un aumento delle immatricolazioni annuali di nuovi veicoli di più di 7 milioni in cinque anni! Nemmeno gli Stati Uniti dell’immediato dopoguerra, nemmeno l’Europa degli anni 1950 avevano conosciuto un simile boom.
Il fatto importante di questo inizio di secolo è proprio la crescita del mercato asiatico. Dal 2008 è il primo mercato mondiale. Il mercato cinese è arrivato in dieci anni al livello raggiunto da quello degli Stati Uniti in 80 anni! Nel 2010 i mercati , indiano, brasiliano e russo erano ancora al livello dei principali mercati europei occidentali, cioè tra 2 e 3 milioni di veicoli [ciascuno]. Conseguenza diretta di questa crescita, questi nuovi luoghi di produzione di massa di auto sono i luoghi dei nuovi scontri sociali. Gli scioperi operai degli ultimi mesi nelle fabbriche di auto cinesi testimoniamo della permanenza della lotta di classe al di là dei periodi e dei continenti.
La recessione del 2008-2009 è cessata ma la crisi è sempre presente
In questo contesto è sopraggiunta la violenta recessione del settore. Il massimo numero di vetture prodotte nel mondo era stato di oltre 73 milioni nel 2007. Il totale nel 2009 è stato di 61 milioni, cioè una riduzione di 12 milioni di veicoli, –17% tra il 2007 e il 2009. È una riduzione notevole, di un’ampiezza come non si era prodotta dopo la seconda guerra mondiale. I due precedenti choc petroliferi avevano avuto conseguenze molto più limitate: meno 5 milioni dal 1973 al 1975, meno 6 milioni dal 1979 al 1982.
Si può veramente parlare, nel 2008-2009, di crollo della produzione negli Stati Uniti, il paese faro dell’auto dagli anni 1930. Il livello della produzione di auto negli Stati Uniti è stato nel 2009 lo stesso di prima del 1950. Nel 2010, l’aumento della produzione ha permesso appena di recuperare i livelli di produzione raggiunti negli anni 1960.
In Europa, l’ampiezza della recessione è stata minore che negli Stati Uniti, e di intensità differente a seconda dei paesi. Nel Regno Unito e in Italia, le diminuzioni della produzione sono state di un’ampiezza uguale al crollo osservato negli Stati Uniti. In Germania e in Francia, gli «incentivi alla rottamazione», cioè sovvenzioni pubbliche all’acquisto di nuovi veicoli, hanno largamente permesso di mantenere il livello delle vendite.
Se il livello delle vendite è stato mantenuto, non è la stessa cosa per i livelli di produzione. La più forte diminuzione della produzione, in confronto all’evoluzione del livello delle vendite, è stata in Francia. Tra i costruttori automobilistici europei, i francesi sono stati i più attivi ad approfittare della crisi per internazionalizzare la loro produzione.
Dalla fine del 2010 è stato recuperato il livello di produzione del 2007, ma la cifra totale su scala mondiale nasconde una grande diversità geografica. Il recupero, ed anche l’aumento, della produzione di auto è stato ottenuto grazie agli aumenti osservati in particolare in Cina, e anche in India, Russia e Brasile. Al contrario, nei «vecchi» paesi automobilistici dell’Europa dell’Ovest, del Giappone e dell’America del Nord l’aumento della produzione osservato a partire dal 2010, non ha ancora compensato le diminuzioni osservate durante la recessione.
La crisi di sovrapproduzione capitalista dell’industria dell’auto continua a infierire in Europa.
La mondializzazione capitalista dell’industria dell’auto dà all’Europa un nuovo posto all’uscita dalla recessione del 2008-2009. La crisi in Europa è sempre presente, con una contraddizione crescente tra gli attacchi portati contro i lavoratori, e i profitti che ritornano verso le sedi sociali dei principali gruppi automobilistici europei, a partire dai guadagni realizzati in tutti i continenti.
In Europa, la crisi dell’industria dell’auto continua ad avere le caratteristiche di una crisi di sovrapproduzione capitalista. L’Europa è la zona geografica del mondo dove la concorrenza è più acuta. Tutti i gruppi mondializzati – nord americani, europei, giapponesi e coreani – vi sono presenti per vendervi e produrre vetture. Al contrario, molte delle società europee sono assenti dall’America del Nord, e la produzione in Giappone è garantita dalle sole imprese nazionali, e il 99% delle vetture vendute in Corea del Sud sono fabbricate nel paese.
In Europa, tutti i costruttori sono dunque presenti in una zona geografica nella quale le vendite di vetture hanno la tendenza a non aumentare più: dalla metà degli anni 1990, le vendite oscillano attorno alla cifra di 20 milioni di vetture. I paesi dell’Europa dell’Ovest conoscono questa fase di stabilizzazione dagli anni 1980 e gli aumenti delle vendite nei paesi dell’Europa centrale e orientale non sono abbastanza importanti da modificare la tendenza alla stabilizzazione. Il capitalismo funziona sotto la dittatura del «sempre di più»: più produzione per più profitti. Basta che la produzione di vetture non aumenti più in misura significativa in Europa perché l’industria dell’auto non abbia altro futuro che la crisi.
La tendenza alla stabilizzazione delle vendite di auto in Europa è strutturale. I tassi di motorizzazione nei paesi dell’Europa dell’Ovest hanno raggiunto livelli che non saranno più superati. L’acquisto di vetture nuove è sempre più riservato alle frazioni più ricche e anziane della popolazione. L’austerità salariale che infierisce ovunque in Europa peserà ancor più sulle possibilità di acquisto dei salariati. E l’uso delle vetture diventa sempre più difficile con il petrolio sempre più raro e caro e l’attenzione portata al riscaldamento del clima, di cui il trasporto individuale in auto è una delle cause principali.
Di fronte a tale situazione, la politica capitalista classica è di ricercare sbocchi altrove. Questa via d’uscita è bloccata per quanto riguarda la produzione materiale delle vetture. Gli stessi gruppi controllano la produzione in Europa e negli altri continenti, e utilizzeranno sempre meno l’Europa come piattaforma per l’esportazione di vetture finite verso altre parti del mondo.
Non aumento della produzione in Europa e presenza di tutti i gruppi automobilistici che si fanno una concorrenza esacerbata: ecco le cause della sovrapproduzione capitalista. Le capacità produttive sono utilizzate solo per i due terzi. Questo indicatore è fornito dagli stessi costruttori automobilistici europei. Anche se questi possono gonfiare le cifre per meglio giustificare le chiusure di fabbriche e le soppressioni di posti di lavoro, questa è la realtà. E la situazione si aggrava poiché i costruttori continuano a investire: è la logica della concorrenza e della maggiore produttività che agisce. Ogni impresa vuole disporre di impianti più produttivi e redditizi di quelli dei concorrenti, e tanto peggio per le capacità di produzione globale non utilizzate. Nuovi impianti e fabbriche trasformate o nuove servono a mettere in funzione macchinari più produttivi e allo stesso tempo a spezzare i collettivi di lavoro. I collettivi di lavoro forniscono la base dei collettivi di resistenza che si sono costituiti attraverso micro resistenze che si costruiscono nel corso della presenza in officina. Una nuova fabbrica e un nuovo impianto: è l’occasione e l’obiettivo per distruggere questi collettivi e imporre condizioni di lavoro più rigorose.
Concorrenza generalizzata e delocalizzazioni
«L’Europa automobile» è immersa nella mondializzazione capitalista. La prima conseguenza è la crescita degli scambi. Contrariamente ai discorsi nazionalistici diffusi in Europa, lo sviluppo degli scambi di automobili si fa in tutti i sensi, dall’Europa verso il resto del mondo e reciprocamente, e anche tra paesi dell’Europa. Ciò che caratterizza tale crescita degli scambi è una concorrenza generalizzata tra imprese, costruttori, componentisti, fabbriche e paesi su scala mondiale. Le delocalizzazioni industriali osservate nei paesi dell’Europa occidentale sono il prodotto di questo fenomeno globale.
L’industria dell’auto non è nella situazione di altri settori industriali , ad esempio del tessile, dove la produzione è stata massicciamente delocalizzata verso paesi a bassi salari. L’Europa continua ad essere un continente da dove vetture prodotte vengono esportate. Le imprese dell’Unione ’Europea hanno tratto profitto dalla mondializzazione capitalista. Mentre il decennio 1990-2000 aveva visto un debole aumento degli scambi, questi si sono moltiplicati per più di tre volte nel decennio 2000-2010
L’Europa è una zona geografica esportatrice e il risultato non è dovuto principalmente ai paesi dell’Europa Centrale e Orientale dove i salari sono effettivamente più bassi: il principale paese esportatore di automobili verso il resto del mondo è la Germania. Al contrario, Francia, Italia e Inghilterra hanno saldi negativi e importano più vetture di quante ne esportino.
Altro dato da tenere presente, ad esempio per la Francia, il deficit più importante in termini di scambi del commercio estero, non è verso i paesi a bassi salari, ma verso la Germania. I fatti sono testardi: è principalmente la concorrenza tra le imprese capitaliste nei paesi più ricchi all’origine degli scambi di automobili tra i paesi e le zone geografiche, e degli squilibri (di che?) crescenti a detrimento dei salari.
Bisogna anche notare che i record di produzione di vetture osservati in Cina sono soprattutto a destinazione di quel paese. Senza giudizi prematuri su quel che avverrà nei prossimi anni, oggi non c’è quasi esportazione di vetture prodotte in Cina a destinazione dell’Europa o dell’America del Nord. I gruppi automobilistici, in prima fila tra i quali il gruppo tedesco Volkswagen, investono in Cina in società con imprese capitaliste cinesi, per produrre a destinazione della Cina e di altri paesi asiatici. Attualmente le vetture cinesi non invadono le strade delle città europee.
In effetti, come gli scambi di automobili sono in tutte le direzioni geografiche, anche le minacce di delocalizzazione non sono a senso unico. I ricatti praticati in Francia o in Italia, sono efficaci anche nei paesi dell’Europa Centrale. In Polonia, Fiat e General Motors Opel mettono in concorrenza le fabbriche polacche con quelle di altri paesi europei.
Il confronto di esperienze è particolarmente indispensabile su questa questione: contro il ripiegamento nazionalistico di ciascuno, la lotta contro le delocalizzazioni impone di rispondere all’internazionalizzazione padronale con atti di solidarietà tra lavoratori.
Strategie padronali europee differenziate
La mondializzazione capitalista si applica a tutti i costruttori di auto. Ma ogni società si internazionalizza secondo modalità che le sono proprie. Tra i gruppi europei si deve constatare che le strategie seguite dai gruppi Renault e Fiat si distinguono da quelle di Volkswagewn o PSA [Peugeot Citroën].
La Renault è stata un’impresa nazionalizzata fino al 1994. La sua privatizzazione è stata attuata dai diversi governi di destra e del partito socialista. Nel 2000, la Renault privatizzata ha stretto un’alleanza capitalistica con il gruppo giapponese Nissan. L’alleanza Renault Nissan tende a prendere le distanze dalla base storica della Renault. La sede finanziaria dell’alleanza è situata nei Paesi Bassi, per ragioni fiscali, ma anche per affrancarsi da un controllo troppo stretto del governo francese, che rimane un azionista con il 15% del capitale della Renault. La conseguenza è un’internazionalizzazione a marce forzate della Renault, tanto dal punto di vista degli azionisti quanto delle attività produttive. L’alleanza Renault Nissan si è squilibrata a vantaggio della Nissan, diventata l’impresa più redditizia. I profitti dichiarati dalla società Renault provengono in gran parte dai dividendi versati dai profitti della società Nissan.
La Fiat [auto], uscita da uno dei più grandi gruppi industriali italiani, ha stretto un’alleanza con la Chrysler ed è in procinto di acquistarne il controllo di maggioranza. Sarà un nuovo gruppo, del quale la vecchia Fiat sarà solo più una componente. La politica dell’attuale AD della Fiat è manifestamente di liberarsi dalla sua base storica italiana per inserirla nella politica di un gruppo mondializzato. Se la sua recente minaccia di non investire in Italia era per molti aspetti solo un ricatto, però traduceva anche questa volontà di costruire un nuovo gruppo sempre meno dipendente dall’Italia.
Gli orientamenti della Renault e della Fiat, che puntano a costruire nuovi gruppi e alleanze autonome in rapporto ai loro paesi e Stati di origine, sono problematici. L’esperienza della recessione di due anni fa ha dimostrato che i governi borghesi erano molto utili, in definitiva, nel comportarsi come “polizze casco” [assicurazioni contro tutti i rischi] per imprese e padroni in fallimento. E la volontà di indipendenza degli attuali dirigenti della Fiat e della Renault si scontra con questa realtà.
I lavoratori della Fiat e della Renault sono i primi a essere colpiti da questa politica, con la diminuzione di posti di lavoro in Europa e in particolare nei loro paesi di origine storica.
Il primo costruttore europeo di auto, Volkswagen VAG, e il gruppo francese PSA, sono anch’essi immersi nella mondializzazione capitalista. Il gruppo VAG è presente in tutti i continenti, produce e vende più vetture in Cina che in Germania. La Volkswagen ha acquistato un notevole numero di altre imprese, soprattutto europee. Ma, contrariamente a Renault e Fiat, non si tratta di alleanze più o meno equilibrate. L’azionariato della Volkswagen ha sempre conservato il suo intero potere di proprietà e di decisione. I marchi acquistati erano tutti più piccoli. E si deve constatare che il legame mantenuto tra il gruppo VAG e il suo Stato di riferimento, la Germania, gli ha permesso di garantire il suo sviluppo mondializzato.
Con una dimensione più ridotta del gruppo VAG, la PSA appartiene da oltre un secolo alla stessa famiglia di capitalisti che ha una parte importante nei dispositivi politici della borghesia francese. La famiglia proprietaria di Peugeot e di PSA si è finora rifiutata di dissolvere i propri diritti di azionariato in conglomerati più ampi. E la PSA mantiene in Francia una parte più importante della sua attività produttiva che quella della sua concorrente privatizzata Renault.
Queste disparità di strategia padronale non sono necessariamente durevoli. Per quanto riguarda la Francia, la Renault, uscita da una nazionalizzazione effettuata dopo la seconda guerra mondiale, era un’impresa nella quale i lavoratori erano meglio organizzati in potenti sindacati. Al contrario, nelle fabbriche Peugeot e Citroën regnavano sindacati «della casa», venduti al padronato. E la Renault è oggi in testa nella diminuzione della produzione di auto in Francia.
Ma per i lavoratori, la questione è di superare ognuna delle esperienze parziali derivanti dallo sfruttamento praticato in ogni società per costruire un fronte di lotta tutti assieme.
Caduta dell’occupazione e dispersione materiale delle attività produttive
L’industria dell’auto è controllata da solo alcuni gruppi. Ognuna delle crisi che hanno ritmato la storia di questa industria ha comportato nuove fusioni e ristrutturazioni tra società. La concentrazione di capitale del settore aumenterà ancora. Ma, elemento nuovo che crescerà ancora con la crisi, questo fenomeno si accompagna, in particolare in Europa, a uno smembramento dei processi materiali e umani di produzione.
Il tempo delle grandi cittadelle operaie di varie decine di migliaia di operai fa parte del passato in Europa. Solo il sito della Volkswagen, a Wolfsburg, occupa più di 50.000 salariati. La taglia media delle altre fabbriche automobilistiche europee più importanti è attorno ai 10.000. La produzione di auto si disperde sempre più tra fabbriche di assemblaggio, qualche fabbrica meccanica di motori, gli stabilimenti della componentistica e i subappaltatori di diverso rango.
In Europa, la caduta dell’occupazione nell’industria dell’auto non è cominciata con l’ultima recessione. Fiat, Renault e PSA ne sono i campioni. In primo luogo è la conseguenza dei processi di automazione nelle fabbriche e delle ristrutturazioni e concentrazioni che riguardano tutta l’industria dell’auto. Storicamente, l’internazionalizzazione degli scambi e la crisi degli sbocchi sono sopraggiunte solo più tardi. Questo perché una vera soluzione alla soppressione di posti di lavoro non sta in un ipotetico aumento della produzione ma in una riduzione del tempo di lavoro che permetta di suddividere il lavoro disponibile tra tutti.
Meno di un quarto del valore di un’auto è oggi prodotto direttamente dal costruttore che mette la sua etichetta sul prodotto finito, mentre questa proporzione era della metà nel 1990. A lato dei costruttori veri e propri, i produttori di componenti sono in una fase attiva di concentrazione e ristrutturazione.
Il terremoto e lo tsunami che hanno devastato il Giappone hanno messo in evidenza la dipendenza di molto costruttori europei dalle parti elettroniche prodotte in Giappone e installate nelle vetture prodotte nelle fabbriche europee. La conseguenza più visibile è stato il blocco della produzione in numerose fabbriche europee per la mancanza di componenti prodotte a molte migliaia di chilometri di distanza.
I lavoratori delle imprese subappaltatrici, fornitrici dei componentisti o dei costruttori, sono stati i primi colpiti perché è là che era più «facile» chiudere una fabbrica. Il fenomeno delle delocalizzazioni è particolarmente intenso nelle imprese subappaltatrici: i sevizi acquisti dei grandi gruppi dell’auto procedono a delle aste tanto più mondializzate in quanto le parti acquistate sono facilmente trasportabili.
In Francia, l’attualità sociale è ritmata dalle lotte sparse di piccole e medie imprese sotto i colpi di chiusure decretate da stati maggiori lontanissimi. In ogni fabbrica attaccata in questo modo, anche se appartiene alla filiera dell’auto, si è lontani dal prodotto auto finito. L’individuazione dei grandi costruttori come mandanti, cioè come responsabili delle soppressioni di posti di lavoro, è la condizione per allargare il movimento a tutto il settore. Ad esempio, una lunga mobilitazione dei lavoratori a Bordeaux in Francia, ha costretto Ford Europa a reinvestire in una fabbrica che aveva venduto due anni fa e a promettere il mantenimento di 1000 posti di lavoro.
Quale congiunzione tra urgenza climatica e movimento operaio?
La questione della congiunzione in Europa tra il movimento sociale che ha iniziato a emergere sull’urgenza climatica e il movimento operaio del settore auto è una questione che abbiamo di fronte. In questo ambito non si può concepire alcuna priorità. Non è possibile subordinare le resistenze necessarie e urgenti agli attacchi contro l’occupazione, i salari e le condizioni di lavoro, a un accordo e una comprensione condivisa delle dimensioni ecologiche della crisi che colpisce l’industria dell’auto.
È l’interesse finanziario che guida il comportamento dell’industria dell’auto. Poco importa che il trasporto su strada – automobili e mezzi pesanti – sia il settore che da dieci anni ha aumentato di più le emissioni di ossido di carbonio. In compenso, il rincaro irreversibile del prezzo del petrolio e la sua fine come fonte di energia abbondante costringono l’industria dell’auto a elaborare altre soluzioni. Non si tratta del benessere dell’umanità ma di un punto di vista strettamente finanziario. I costruttori, dopo decenni senza investimenti seri in questi campi, cominciano a preparare veicoli a motore ibrido, e veicoli elettrici. Quel che non hanno fatto negli anni della crescita – attenti soprattutto a passare dividendi agli azionisti – pretendono di farlo adesso. Ma la crisi dell’industria dell’auto non sarà risolta con ricette tecnologiche. Nella maggior parte dei paesi europei, l’elettricità è prodotta da centrali termiche che funzionano a petrolio e a carbone e, in Francia, con centrali nucleari rimesse in discussione dalla catastrofe giapponese di Fukushima. Questo tipo di soluzione tecnologica non è una risposta ai fattori strutturali della crisi dell’auto.
Mentre i trasporti collettivi vengono privatizzati e si degradano, la battaglia per la conservazione di un servizio accessibile a tutti fa parte dell’urgenza sociale. Certo, nuovi mezzi di trasporto collettivi e semi-collettivi sono da inventare. Le risorse di questa invenzione sociale esistono prima di tutto tra i lavoratori del settore. Ma come credere che questa creatività possa manifestarsi senza un controllo operaio sulla produzione, e uno scontro con un padronato al quale non interessa l’utilità sociale delle merci che vende sul mercato.
Come nota Lars Henriksson, operaio svedese della fabbrica Volvo, «Se non facciamo niente su questo e aspettiamo soltanto che altri se ne incarichino, ci sono molte probabilità che ci ritroveremo presto tutti senza lavoro. Trasformare la produzione automobilistica può sembrare un compito impossibile per noi che lavoriamo al livello più basso dell’impresa. Ma la verità è piuttosto che noi siamo i soli a poterlo fare! Non possiamo aspettarci nessun aiuto e nessuna soluzione da parte dei padroni.»
Nessuno spazio tra la subordinazione alla crisi e lo scontro con il capitale
Con il pretesto della crisi, ovunque in Europa il padronato è all’offensiva nel settore auto. I periodi precedenti avevano visto la conclusione di contratti collettivi e di accordi di settore. Erano testimonianze del rapporto di forze che il movimento operaio era riuscito a imporre attraverso tutta una storia di lotte operaie e sindacali.
Le presenze e gli orientamenti nelle fabbriche e nelle imprese erano diversi. C’erano semplici officine «della casa», direttamente alla dipendenza del padronato, per controllare i lavoratori dall’officina alla casa passando per il tempo libero. C’erano sindacati che coprivano le politiche padronali ma volevano disporre di un vero potere negoziale con il padronato. E si sono sempre mantenuti orientamenti più combattivi che mantenevano l’indipendenza del movimento operaio, e correnti che si iscrivevano nella prospettiva del’autorganizzazione dei lavoratori e di una lotta di classe senza concessioni.
Tali disparità di posizioni sono sempre meno possibili. Il padronato ha impegnato una lotta aperta per espellere dalle fabbriche tutto ciò che non è subordinazione alla crisi. Tramite nuove forme di organizzazione del lavoro, costrizioni imposte dal “just in time”, c’è una nuova caccia ai tempi morti e alle pause, un’intensificazione e un aggravamento delle condizioni di lavoro.
Perciò c’è sempre meno spazio per le posizioni intermedie del movimento operaio: lo scontro tra il movimento operaio e il padronato non può essere evitato di fronte all’offensiva di quest’ultimo. È quanto rivela l’aggressione portata dalla Fiat Mirafiori a Torino contro la FIOM.
La pratica dei «referendum ricatto» si generalizza: Fiat a Torino, General Motors a Strasburgo, Nissan in Catalogna, Continental in Midi-Pirenei in Francia. È una vera ondata, che ricorre in tutti questi casi alle stesse ricette: aggirare i sindacati rappresentativi per rivolgersi direttamente ai lavoratori condizionati dallo stesso ricatto padronale: o la rimessa in discussione delle conquiste o la chiusura della fabbrica.
È urgente una controffensiva tutti assieme contro le politiche padronali. Ma non si fa per decreto. I grandi gruppi dell’auto sanno come sviluppare la concorrenza tra loro e allo stesso tempo coordinare, su scala nazionale, europea e mondiale, le loro pratiche politiche verso i salariati. Il coordinamento effettivo delle lotte e delle resistenze tra lavoratori dovrebbe essere messo all’ordine del giorno di tutto il movimento operaio in Europa.
Cominciamo con la condivisione e gli scambi di esperienze di lotta, la discussione sulle rivendicazioni, il rifiuto di coprire la crisi dei capitalisti.

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