lunedì 19 dicembre 2011

Articolo 18, dieci anni di attacchi


La prima offensiva contro lo Statuto inizia nel 2001 con il "patto di Parma" tra Berlusconi e Confindustria. Ma la Cgil resiste. Dove non è riuscito il Cavaliere riusciranno i Professori?


Salvatore Cannavò
da Il Fatto quotidiano
La bestia nera della destra italiana, e della Confindustria, resta l’articolo 18. La disposizione contenuta nello Statuto dei lavoratori risale al 1970 e la sua incubazione risente del clima del ’68 e del ’69, il vero “autunno caldo” italiano che produsse una corposa legislazione sociale. Curioso che a cercare di scardinare la norma voluta da un socialista riformista come Giacomo Brodolini – ministro del Lavoro nel 1969 ispiratore dello Statuto scritto poi da un altro socialista, Gino Giugni – sia stato sempre un altro sedicente socialista come Maurizio Sacconi, legato a Gianni De Michelis e vicecapogruppo del partito di Craxi a metà degli anni 80. Da ministro del Lavoro nell’ultimo governo Berlusconi, e da sottosegretario allo stesso dicastero nel governo del 2001-2006, Sacconi si è speso a fondo contro quella legge.

L’offensiva contro l’articolo 18 inizia già nel 2001 quando il governo Berlusconi decide di onorare il “patto di Parma” siglato con la Confindustria di Antonio D’Amato, nel marzo del 2001, quando il leader degli industriali chiedeva maggiore “libertà di licenziare”. La protesta sindacale, a eccezione di Cisl e Uil, e immediata e il 23 marzo 2002 la Cgil, guidata dall’allora segretario Sergio Cofferati, promuove in solitaria la più grande manifestazione sindacale della storia italiana con circa 3 milioni di persone al Circo Massimo di Roma.
Quell’articolo, che “ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore” licenziato “senza giusta causa” e che resta una garanzia rispetto a discriminazioni di qualsiasi tipo, viene accusato di irrigidire il mercato del lavoro e di impedire alle imprese di evolvere e crescere. A cercare di smussarlo, limitarlo o imbalsamarlo ci provano anche esponenti del Pd, come il senatore Ichino che vuole sterilizzato in cambio di una maggiore garanzia nelle assunzioni per nuovi lavoratori.

Eppure, quel diritto, riesce a riscuotere un consenso di massa. Nel 2002-2003 Rifondazione comunista si impegna addirittura in un referendum per l’estensione dell’articolo 18 anche alle imprese con meno di 15 dipendenti. L’operazione non riesce, anche per la scelta degli allora Ds, e dello stesso Cofferati, di non partecipare al voto: si recherà alle urne solo il 25 per cento dell’elettorato e il quorum sarà mancato.
L’intera vicenda produce un ripensamento in Confindustria. La linea “dura” di D’Amato viene sconfitta nel 2004 dall’ascesa di Luca Cordero di Montezemolo alla guida degli industriali con il rilancio di una posizione di dialogo con il sindacato e quindi di concertazione. Per lungo tempo di articolo 18 non si parla più.
Ci pensa però Sacconi a riproporre il tema. Il primo tentativo si svolge con il cosiddetto Collegato lavoro, un disegno di legge nel quale viene introdotto l’arbitrato, al posto del processo, per la risoluzione delle cause relative al licenziamento ingiustificato. Sarà il presidente della Repubblica a invitare il Parlamento, che aveva già approvato la norma, a rivederla e prevedere l’arbitrato solo in presenza di una scelta effettiva da parte dei lavoratori.

Intanto, la Confindustria, dopo l’accordo separato del 2009 con Cisl e Uil sulle deroghe contrattuali e gli accordi di secondo livello e dopo lo scontro furibondo che vede opposti la Fiat e la Fiom-Cgil, inizia a tessere un nuovo dialogo con la Cgil di Epifani prima e di Camusso poi. E’ in questa chiave che il 28 giugno 2011 Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, siglano un accordo che affronta i temi della contrattazione e della rappresentanza. Nessun riferimento, però, viene fatto all’articolo 18.
Ci pensa per ancora Sacconi a smuovere le acque inserendo nella manovra estiva –in piena bufera finanziaria con il rischio del “default” che incombe sull’Italia – quell’articolo 8, con il quale si stabilisce che i contratti di lavoro siglati in azienda o a livello territoriale, possono derogare ai contratti nazionali e “alle disposizioni di legge”, quindi anche allo Statuto dei lavoratori. L’unico limite è dato dalla necessità di un accordo con i sindacati “maggioritari” in azienda. Cgil, Cisl e Uil decidono di firmare un’intesa in cui si impegnano a non utilizzare quella norma che, per quanto sterilizzata, verrà approvata dal Parlamento.

Ora si passa all’ultima fase. Il governo ha già detto che dopo la manovra intende porre mano alla “riforma del mercato del lavoro”. Dove non è riuscito compiutamente Berlusconi riuscirà il governo Monti? Nel suo discorso di insediamento l’ex Commissario europeo ha scelto un approccio cauto. Ma ai sindacati non è piaciuta la mancanza di consultazione con cui è stata varata la manovra. Interpellati sull’articolo 18 sono quasi tutti d’accordo nel dire che non si siederanno a un tavolo “per facilitare i licenziamenti”.Non è chiaro, però, cosa succederà se il governo presenterà, come sembra, una riforma complessiva che tenga conto degli ammortizzatori sociali, del welfare, della rappresentanza sindacale (vedi Fiat) e, anche dell’articolo 18. La Fiom, che chiede una modifica dell’articolo 19 dello Statuto, per garantirsi la rappresentanza nelle aziende Fiat, non intende allargare il confronto. La Cgil nemmeno. Certamente, però, la prossima volta non ci saranno i sotterfugi di Sacconi. La prossima volta si discuterà alla luce del sole.

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