martedì 8 gennaio 2013

Da Cambiare si può a Ingroia

La proposta di “Cambiare si può” lanciata a novembre scorso da una settantina di personalità del mondo della cultura di sinistra (più alcuni, pochi, lavoratori e nessun esponente dei movimenti giovanili) ha avuto il merito di portare alla luce la diffusa volontà di tentare di porre la parola fine, con le prossime elezioni politiche, alla assenza dal panorama istituzionale e mediatico di una sinistra degna di questo nome. Questa assenza, iniziata con il naufragio della “Sinistra Arcobaleno” nelle elezioni del 2008, è stata evidentemente rivelatrice non tanto di un “infortunio” elettorale ma piuttosto di una più generale crisi strutturale della sinistra italiana, che non ha saputo, perlomeno nelle sue componenti principali, far fronte all’offensiva ideologica e politica delle classi dominanti, al crollo del PCI, forza storicamente egemone nella sinistra italiana e alla neanche troppo graduale “mutazione genetica” delle formazioni che ne sono state eredi (PDS, DS e, infine, PD). Con la sparizione della rappresentanza istituzionale nazionale del PRC (passato repentinamente da una settantina di parlamentari a zero) sono venuti a scomparire dal panorama politico istituzionale, mediatico e “ufficiale” contenuti e proposte “radicali”, cosa che, da buona parte dell’elettorato e dell’opinione pubblica, è stato letto come una secca e severa delegittimazione di qualunque voce di radicale opposizione e di netta contrapposizione con il centrosinistra. Anche a causa di questa delegittimazione continuano ad essere forti a livello di massa uno stato d’animo di rabbiosa rassegnazione e l’idea della impossibilità di un’alternativa alle politiche dell’austerità. Tante e tanti militanti, consapevoli delle enormi responsabilità dei dirigenti dei partiti della sinistra “radicale”, aggravate dalla incapacità di rispondere alla onda “antipolitica” attraverso una vera rifondazione strategica, politica e etica della sinistra, hanno visto nella proposta di “Cambiare si può” di presentare alle prossime elezioni “una lista di cittadinanza politica, radicalmente democratica, alternativa al governo Monti, alle politiche liberiste che lo caratterizzano e alle forze che lo sostengono” un’occasione da non perdere. Da non perdere non solo per offrire una proposta nuova all’elettorato ma anche e soprattutto per ritrovare la convinzione ad una militanza ormai ai limiti della disillusione. Quell’appello, che faceva seguito ad un altro, precedente, del marzo 2012, un “Manifesto per un soggetto politico nuovo, per un’altra politica nelle forme e nelle passioni” finalizzato alla costruzione di un “soggetto politico nuovo” (A.L.B.A., Alleanza Lavoro Beni comuni Ambiente), con l’aspirazione di dare rappresentanza, non solo elettorale, a tutte quelle persone che l’intreccio tra crisi della democrazia e crisi della sinistra aveva allontanato dalla politica. L’ ambizione dei promotori dei due appelli si incontra con le preoccupazioni di migliaia di militanti e ex militanti, spesso senza partito, e, ancora più spesso, impegnati nei movimenti sociali e ambientali, nei sindacati, nella cultura, nell’associazionismo e arriva a dar vita a una serie di incontri, nazionali e territoriali estremamente partecipati e appassionati. L’avvicinarsi delle elezioni (peraltro addirittura anticipate per le fibrillazioni della inedita maggioranza del governo Monti) fa sì che le due assemblee nazionali a Roma (il 1° e il 22 dicembre) e le oltre 100 nelle più importanti città del paese raccolgano migliaia di partecipanti desiderosi di (re)impegnarsi in una battaglia politica difficile ma appassionante. Ma il vuoto politico istituzionale a sinistra del PD è stato anche l’assillo dei gruppi dirigenti e degli apparati dei partitini della sinistra “radicale”, alla ricerca di un rilancio politico e, soprattutto, organizzativo, dal momento che l’estromissione dalle istituzioni parlamentari aveva significato per loro l’arrivo sull’orlo del baratro e del tracollo. La ricerca spasmodica del ritorno alla presenza parlamentare (con il relativo finanziamento pubblico di apparati e organi di stampa) li ha spinti fin dal 2008 a tentare ogni strada possibile per un’intesa con il PD, nonostante fosse chiaro che le basi politiche di questa intesa erano del tutto immaginarie, e ancor più in particolare nell’ultimo anno, quando il PD ha sposato con convinzione e entusiasmo il sostegno a Monti e alle sue misure antipopolari. L’assenza di interlocuzione con il PD, tra l’altro, comporta il raddoppio del quorum necessario per l’ingresso alla Camera (dal 2 al 4%). E, di fronte all’ormai inevitabile diniego del PD a qualunque apparentamento, la ricerca della “sponda” si rivolge verso l’Italia dei Valori, partito personale Di Pietro, incuranti dei trascorsi dell’ex giudice-ministro-deputato, accanito sostenitore delle grandi opere (a partire dalla TAV) oltre che affossatore di ogni inchiesta sui misfatti delle forze dell’ordine nel luglio 2001 a Genova e non solo. L’Italia dei Valori, in crisi anche per le indagini sul malaffare di alcuni esponenti del partito, è anch’essa messa di fronte alla chiusura totale dell’asse PD-SEL, alimentata dalla previsione da parte di Bersani e Vendola di una autosufficienza elettorale per il forte ridimensionamento della destra berlusconiana. Su tutto, inoltre, incombe la crescita del movimento di Beppe Grillo, che morde sia sull’elettorato giustizialista dell’IDV sia su quello antimontiano e anti-PD dei partiti di sinistra. L’esplosione della Federazione della sinistra rende infine tutto più difficile per il miniapparato del PRC che rischia di non avere alcuna proposta elettorale. La mobilitazione suscitata dall’appello “Cambiare si può” apre prospettive nuove e inattese. Da un lato quella mobilitazione contagia anche settori del PRC o ad esso vicini ma dall’altro la sua vocazione innovativa e l’impostazione “basista” con cui pretende di comporre le liste elettorali rischiano di mettere troppo in ombra il ruolo dei partiti e, soprattutto dei loro dirigenti. Ma il PRC sta al gioco, partecipa attivamente (fin troppo) alle assemblee nazionali e locali e accetta che i dirigenti facciano “un passo indietro”. Ma, nel frattempo, scende in campo un altro soggetto che fino ad allora aveva fatto capolino nel dibattito ma che non aveva scoperto tutte le sue carte. Si tratta del giustizialismo populista di sinistra di De Magistris, che fino ad allora si era mantenuto su una vaga proposta di rinnovamento politico, senza però mai chiarire le proprie intenzioni elettorali né con quale piattaforma né in quale rapporto con il centrosinistra. Il forte ruolo di Luigi De Magistris come sindaco di Napoli risultava però un sostanziale handicap, per l’impossibilità di una sua candidatura diretta a capeggiare una coalizione che traducesse sul piano nazionale la vittoriosa esperienza partenopea. Nasce così la proposta di candidatura di Antonio Ingroia a premier e l’operazione per aggregare attorno ad essa tutto ciò che non vuole o non trova alleanza con PD-SEL. PdCI e IDV, privi di qualunque prospettiva, si dicono subito della partita; il PRC, che pure ha partecipato intensamente al movimento “Cambiare si può”, ha però, nel frattempo, giocato neanche troppo sottobanco su tutti gli altri tavoli, intessendo rapporti con De Magistris e con gli altri partiti e elaborando più soluzioni per avere il massimo di capacità di contrattazione. Dunque, effettivamente il primo e principale oggetto da fagocitare è proprio l’esperienza di “Cambiare si può”, che vuol dire acquisire con un colpo solo tutta la militanza nuova o rinnovata messa in moto da quell’appello e tutta quella della ex Federazione della sinistra, che possono diventare gli utili portatori d’acqua di un’operazione elettorale ambigua e discutibile. E questo “fagocitamento” avviene (lo rivelano i numeri delle due consultazioni online) grazie soprattutto all’apporto del PRC e del PdCI. In cambio Ingroia accetta che i segretari e i massimi dirigenti dei partiti (PRC, PdCI, IDV, Verdi), a cui anche lui aveva chiesto il fatidico “passo indietro”, vengano messi in lista, seppure non come capilista ma comunque in posizione eleggibile. Non solo, la piattaforma politica di Ingroia, nonostante la disponibilità a essere rivista, resta quella dei suoi 10 punti di fine dicembre, e viene solennizzata stampandola nel primo volantino nazionale della campagna, sul retro del “faccione” del giudice. Tra quei dieci punti, prevalentemente ispirati all’ideale di “legalità” antimafiosa, spicca ancora il sesto punto, che chiede più libertà per le imprese “che non siano soffocate dalla finanza, dalla burocrazia e dalle tasse” (sic!), di puro impianto liberale, e spicca, per assenza, qualunque riferimento ai diktat europei e al fiscal compact. Quanto all’innovazione della politica, oltre alla scandalosa ricandidatura di almeno tre ex-ministri (Di Pietro, Ferrero e Diliberto), corresponsabili insieme ai governi di cui hanno fatto parte di numerose misure di stampo liberista e di criminali azioni di guerra (nei Balcani e in Afghanistan), c’è anche da sottolineare la impostazione politica del simbolo, totalmente subalterno alla rovinosa personalizzazione della politica della “seconda repubblica”. Infine, sul nodo cruciale dei rapporti con il PD e con il centrosinistra, la lista Ingroia coltiva lo strumento dell’ambiguità e non disdegna la ricerca di un’interlocuzione, con la giustificazione secondo cui non si può mettere un segno di uguaglianza tra il PD e Berlusconi, cosa che, se non fosse un grave alibi per nascondere la contrattazione di ipotesi di desistenza al Senato e la disponibilità a svolgere il compito di ruota di scorta in caso di maggioranze traballanti, sarebbe comunque una banalità inutile a definire una linea politica. Il movimento “Cambiare si può” si divide: circa due terzi degli aderenti (almeno dei votanti, 6.900 su 13.000) accettano la confluenza nella “Lista Ingroia-Rivoluzione civile”, ma oltre 2.000 votanti (oltre 350 astenuti) e la grande maggioranza dei promotori si dissocia, esplicitando un grave e secco dissenso. La sconfessione del “gruppo dirigente” di “Cambiare si può”, in realtà, riflette la sua debolezza politica, la sua mancanza di esperienza (perlomeno recente) nel condurre un’iniziativa complessa con tanti nemici e, soprattutto, con tanti falsi amici. Riflette il suo carattere improvvisato, sulla base di un appello che pur affrontando nodi importanti, ma eludendone tanti altri non poteva presumere di consolidare attorno a sé (per di più in poche settimane) una “base” sufficiente a reggere l’impatto dell’incursione di De Magistris e dei partiti. Riflette il rischio presente nell’iniziativa di un’impostazione tutta centrata sulle elezioni e sulla crisi della politica e per nulla preoccupata di radicarsi nelle lotte e nelle mobilitazioni sociali di questa fase. Riflette, infine, la sua sopravvalutazione della crisi dei partiti “radicali” che, con una banale operazione organizzativa hanno ribaltato in pochi giorni gli orientamenti maggioritari. Ma l’epilogo della vicenda elettorale di “Cambiare si può” porta alla luce anche la fragilità degli orientamenti radicali delle assemblee e, in particolare, di quella del 22 dicembre, quando un’atmosfera di forte combattività e di netta contrapposizione al centrosinistra si contraddiceva clamorosamente nelle ovazioni rivolte a Ingroia e a De Magistris e nella bocciatura a larghissima maggioranza di una mozione che metteva in discussione la leadership del magistrato palermitano. Ora i partiti stanno operando per replicare questa esperienza anche nelle prossime elezioni regionali e comunali che si svolgeranno in contemporanea (o dopo poche settimane) con le politiche. Nel Lazio, ad esempio, dove il capogruppo IDV è in stato di detenzione per illeciti nell’utilizzazione del finanziamento pubblico, i segretari regionali di PRC, PdCI e Verdi non si peritano di sottoscrivere assieme al responsabile di quel partito un appello per una lista “Rivoluzione civile” alle prossime regionali. Anche là, nonostante l’evidente perdita di credibilità di tutta l’istituzione regionale per l’accumulo di inchieste sulle malversazioni, verranno ripresentati in testa di lista i consiglieri uscenti. Questo epilogo chiude l’esperienza elettorale aperta dall’appello di A.L.B.A. e poi da quello di “Cambiare si può”, ma forse non pone la parola fine alla rinnovata voglia di attivismo politico e sociale che in quell’appello si era ritrovata. Sarà giusto osservare con attenzione quanto accadrà e stimolare l’attivazione di tutto il potenziale risvegliato sul piano della necessaria mobilitazione sociale contro le politica antipopolare che il prossimo governo intraprenderà. Si tratta dello sviluppo di quanto Sinistra Critica ha fatto nel corso del mese di dicembre, quando abbiamo effettivamente puntato, con convinzione, nella possibilità che l’aggregazione in fieri potesse reggere la prova del rapporto con la politica politicante. Oggi si tratta di vedere se ciò che ne resta potrà svolgere un ruolo importante ora non più rispetto alle elezioni ma, piuttosto, nello sviluppo dei movimenti e delle mobilitazioni. Quanto alla lista “Ingroia-Rivoluzione civile” la vedremo alla prova. È indubbio che essa non assomiglia neanche da lontano quella “Syriza italiana” che è stata evocata come modello in tanti interventi nelle assemblee. Peraltro, la costruzione di quella forte coalizione di larga parte della sinistra greca è stata frutto dell’azione convinta e coesa di numerosi gruppi politici durante un lungo periodo, per di più incalzati da un livello di mobilitazione e di combattività sociale ben lungi dall’essere presente anche in Italia. Resta, comunque, che nel vuoto elettorale e politico a sinistra del PD, essa potrebbe apparire, pur con tutte le sue gravi ambiguità, come l’unico soggetto in campo, capace di rispondere, anche se solo in parte, alle preoccupazione, presente in tanti movimenti e in un’ampia area critica verso il centrosinistra, di non rifugiarsi nell’astensione, né nel voto a Grillo. Andrea Martini

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