martedì 4 giugno 2013

Testo quadro “Lavoro e non lavoro al tempo del Fiscal Compact”

di Nando Simeone

1. ALCUNI DATI SULLA COMPOSIZIONE DI CLASSE OGGI e l’effetto della crisi sul mondo del lavoro:
Secondo l’Istat, i lavoratori dipendenti in Italia nel 2012 risultano essere 17.213.000, 220mila in meno rispetto al 2008. In questo calo si nasconde una redistribuzione dei lavoratori tra diversi settori. Solo nell’industria si sono persi 400mila posti di lavoro, una parte dei quali si sono trasferiti nel settore dei servizi (in cui l’occupazione aumenta di circa 160mila unità). Il tasso di disoccupazione è passato dal 6,1% del 2007 al 10,7 del 2012, aumentando del 50% per le donne e del 100% nel caso degli uomini.
Se escludiamo i dirigenti e i quadri, i soli operai e impiegati ammontano a circa 15.669.000. Per avere una cifra complessiva del nuovo proletariato bisognerebbe aggiungere una quota significativadegli 800mila lavoratori autonomi tra collaboratori e prestatori d’opera, coadiuvanti familiari (badanti ecc.) e soci di cooperative. Le donne operaie e impiegate sono oltre 7 milioni, circa 440mila collaboratrici, coadiuvanti familiari e socie di cooperativa. A questi vanno aggiunti 2.700.000 disoccupati in cerca di occupazione, senza contare i cosiddetti “scoraggiati”, cioè quei disoccupati di lunga durata che hanno smesso di cercare lavoro. Si pensi che tra il 2008 e il 2012 i disoccupati di lunga durata sono passati dal 45% al 51,3% del totale dei disoccupati. In queste statistiche non sono poi inclusi i lavoratori in nero, stimati dall’Istat in circa il 12% degli occupati (con punte di uno su quattro in agricoltura e di quasi uno su tre nelle attività artistiche, riparazione di beni per la casa e altri servizi).
Nel 2011 i lavoratori atipici erano quasi il 12% degli occupati, il 10% assunti a tempo determinato e il 1,8% con contratti di collaborazione, senza censire i finti autonomi che lavorano con partita IVA nei fatti in posizione di subordinazione.
Nel 2012 la quota di lavoro immigrato sul totale è del 10%. Di questi il 60% è in una microimpresa (con tutto ciò che questo comporta: alta nati mortalità delle imprese, poca sindacalizzazione, niente ammortizzatori sociali)
Quindi: la crisi ha prodotto aumento della precarizzazione, della disoccupazione, riduzione notevole delle ore lavorate (con l’aumento della cassa ma anche con il PT che copre il lavoro nero) e aumento dei differenziali salariali

2. L’OFFENSIVA PADRONALE DAL ’92 AD OGGI

La cancellazione della scala mobile, l’attacco al salario, le controriforme del sistema pensionistico (Amato Dini, Prodi), la precarizzazione del lavoro, il pacchetto treu, la legge 30 .,ed in ultimo la cancellazione delle pensioni e dell’articolo 18, con la riduzione degli ammortizzatori sociali attraverso la riforma Fornero, sono l’insieme di questi provvedimenti che hanno destrutturato, disarticolato e impoverito l’insieme della classe lavoratrice.
Le intese concertative del 1992-93, sono state imposte con il pretesto di “tenere sotto controllo l’inflazione”, cominciando a privare il contratto nazionale di lavoro di ogni potenzialità migliorativa delle condizioni e delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. Sterilizzando la scala mobile e ponendo sugli aumenti contrattuali il limite del solo recupero dell’ “inflazione programmata”, quegli accordi condannavano i contratti, nella migliore delle ipotesi, alla semplice salvaguardia del potere d’acquisto e mettevano la parola fine alla grande stagione “acquisitiva” dei contratti degli anni 70 e 80. Nei fatti quel limite alla pura inflazione prevista dalle leggi finanziarie provocò un lungo periodo di strangolamento della dinamica salariale e uno straordinario spostamento di ricchezza dai salari ai profitti che venne poi quantificato in almeno 10 punti percentuali del PIL.
Parallelamente, con la eccezionale diffusione del lavoro precario, sostenuta e incoraggiata da numerose e successive innovazioni normative (dal “pacchetto Treu” 196/1997, alla “legge Biagi-Maroni” 276/2003), un numero crescente di lavoratori e di lavoratrici (in particolare giovani ma non solo) non saranno più tutelate/i dalle norme e dai minimi contrattuali nazionali. E anche la crescente manodopera migrante è stata spesso immessa nel mondo del lavoro con assunzioni precarie e, ancor più spesso, al nero.
Ciò ha comportato il progressivo disinteresse di settori crescenti del mondo del lavoro attorno alla difesa del valore e della centralità che in precedenza ai contratti nazionali assegnava la stragrande maggioranza della classe lavoratrice italiana.
Ma questo valore solidaristico dei contratti nazionali, che consentiva una tendenziale uguaglianza tra i lavoratori delle zone e dei settori più ricchi e quelli delle regioni economicamente più arretrate, sopravviveva, nonostante venti anni di accordi concertativi e di prevalere del “pensiero unico” capitalistico.
Le scelte dei governi di centro sinistra e di centro destra e di grande coalizione sono state tutte nell’insegna dell’utilizza della crisi per colpire duramente la classe lavoratrice. Alla fine del 2008, il governo Berlusconi e il “ministro del lavoro” Sacconi, riprende l’offensiva contro il vincolo dei contratti nazionali, che, secondo i suoi detrattori, avrebbe penalizzato la contrattazione di secondo livello, quella aziendale e territoriale. Questa offensiva trova una sua prima concretizzazione nell’accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009, quell’accordo, respinto dalla Cgil soprattutto grazie alla vigorosa opposizione della Fiom, puntava a dare un forte impulso alla contrattazione aziendale detassandone (con una “cedolare secca” del solo 10%) tutti gli aumenti e limitando ancora di più gli aumenti dei contratti nazionali a copertura dell’inflazione.
Sulla base di quell’accordo, successivamente, e nonostante il formale rifiuto della Cgil ad avallarlo, venivano sottoscritti numerosi e deteriori contratti di categoria.
Successivamente, l’obiettivo per i padroni è diventata la facoltà di trasgredire senza conseguenze alle norme contrattuali, la possibilità, dunque, di stipulare “accordi in deroga” alle norme pattuite nazionalmente.
Questa possibilità è stata sperimentata per la prima volta e in modo decisamente “innovativo” alla Fiat di Sergio Marchionne, con i contratti imposti in successione ai lavoratori di Pomigliano, di Mirafiori e della Bertone e, poi, estesi, attraverso il nuovo contratto dell’auto, a tutti i 90.000 dipendenti dei vari stabilimenti del gruppo torinese.
La ricerca delle deroghe, dunque, in prospettiva di una gestione salariale e normativa della manodopera in totale balia dell’arbitrio padronale, è rapidamente diventata la nuova ossessione di padroni e padroncini italiani, in preda alla crisi e attizzati dal sostegno corale dei media, delle istituzioni e della politica al “metodo Marchionne”.
Se ne faceva interprete il solito ministro Sacconi, che, incoraggiato anche dalla famosa lettera di Trichet e Draghi della BCE del 5 agosto 2011, faceva approvare una norma (il famoso articolo 8 della legge 142/2011) che legittimava tutte le deroghe agli accordi e, in sovrappiù anche alle leggi. In poche parole, con un accordo (anche con sindacati minoritari e, magari, di comodo) si possono vanificare tutti i contratti precedenti e perfino le leggi dello stato in materia di gestione della manodopera.
L’accordo del 28 giugno 2011chiude il cerchio, questa volta anche con la firma formale della CGIL, si sottoscrive un’ accordo che prevede le deroghe al CCNL, spostando la centralità dal contratto nazionale a quello aziendale.
In conclusione, questo accordo cambia la natura del sindacato, cambia la natura della Cgil, distrugge la libertà e l’autonomia della contrattazione ai vari livelli mentre stabilisce un sistema burocratico aziendalistico governato dalle imprese e dagli accordi corporativi con le grandi confederazioni. E’ il sistema della complicità sindacale auspicato dal libro bianco di Sacconi. E’ bene inoltre ricordare che resta totalmente in vigore l’accordo separato del 2009, che la Cgil non aveva sottoscritto. Ora quell’accordo viene regolato da questa intesa unitaria.

3. IL RUOLO DEI SINDACATI CONFEDERALI E DI BASE

La CGIL, la FIOM, e il Sindacalismo Di Base

La situazione dei rapporti di forza tra le classi dipende in grandissima parte dalle scelte operate in questi ultimi decenni dalle direzioni confederali e, più nello specifico, da quella della CGIL, che per il suo radicamento storico nei settori più combattivi e politicizzati, è stata il veicolo più efficace per far penetrare tra gli operai avanzati tutti i luoghi comuni della ideologia liberista “temperata.
Questa responsabilità storica della CGIL non è stata neanche mitigata dalla “svolta” impressa alla confederazione al momento del 14° congresso nel 2002, certo, sotto la spinta delle critiche interne della sinistra confederale e della Fiom, ma soprattutto per la “cinica” decisione di Cofferati di assumere un ruolo politico nazionale, di fronte alla paralisi e alla connivenza della sinistra liberale incapace di contrastare le scelte più odiose del 2° governo Berlusconi.
Certo, la CGIL, dopo essere stata colpevolmente assente nelle giornate di Genova del luglio 2001, assunse in quegli anni un ruolo nel movimento, sia dando impulso alla lotta contro la manomissione dell’art. 18 della legge 300, sia nel sostenere organizzativamente le principali manifestazioni pacifiste, a partire dal corteo della giornata conclusiva del Social Forum europeo del novembre 2002.
Ma quella “svolta” deliberatamente eluse ogni bilancio sulla pratica sindacale degli anni 80 e 90, e in particolare sulla politica degli accordi concertativi dei primi anni 90, che anzi restò e resta alla base degli orientamenti contrattuali di gran parte delle sue strutture confederali e categoriali, con la eccezione della Fiom.
Quello straordinario periodo di mobilitazione di massa è archiviato nell’immaginario della burocrazia confederale come il periodo dell’ “isolamento” della CGIL.
Successivamente, la CGIL si è impegnata a fondo per il successo del centrosinistra alle elezioni del 2006, fino a dichiarare solennemente nel congresso “preelettorale” del marzo di quell’anno che il programma dell’Unione” era identico al programma della CGIL. La scelta confederale di non fare nulla che mettesse a rischio la tenuta della risicata maggioranza che emerse dalle elezioni ha cancellato nella mente di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori ogni parvenza di autonomia del sindacato.
Il Protocollo sul welfare del 23 luglio 2007 è emblematico per illustrare il ripiegamento della CGIL. Gli ulteriori cedimenti messi in atto da Epifani durante il governo Prodi, hanno colto in contropiede la corrente di Lavoro società che è stata costretta, obtorto collo , a schierarsi contro la sottoscrizione del protocollo sul Welfare, contro l’apertura della trattativa sul modello contrattuale e, più in generale, contro la stretta burocratica impressa dal gruppo dirigente legato alla “sinistra” del PD.
Una dinamica analoga ha investito la Fiom, che ha praticato negli ultimi tempi una politica contraddittoria, ancora critica nei confronti di alcune scelte confederali, ma meno conflittuale con Fim e Uilm sul versante contrattuale.
Al contrario, si è confermata la linea di opposizione coerente praticata dalla Rete 28 aprile a partire dalla sua fondazione nel 2005. La Rete, anche forte del fallimento delle ipotesi di mediazione con il vertice di Corso d’Italia adottate da Lavoro Società, ha saputo imporre, nei momenti più importanti, una linea di convergenza delle sinistre interne e della Fiom che ha condotto al successo della assemblea unitaria del 23 luglio 2008.
La linea della unità delle sinistre interne (assieme alla Fiom) è stata il suo orientamento di fondo e la Rete 28 aprile manifesta anche una preziosa disponibilità a confrontarsi e a concordare iniziative coordinate coi sindacati di base, altro elemento fondamentale per una prospettiva di ricostruzione di un sindacato di classe.
Nell’ultimo congresso della CGIL Epifani aveva iniziato un percorso di graduale ma deciso riavvicinamento con Cisl e Uil e di nuova adesione ai disegni padronali di azzeramento delle conquiste operaie, con la direzione di Susanna Camusso quel processo è stato portato a compimento.
La Fiom ha tentato di creare un asse alternativo alla direzione confederale assieme alla Funzione pubblica e alla federazione dei bancari, tutti insieme costruiscono un documento alternativo sostenuto anche dalla rete 28 aprile, si da il via ALLa CGIL Che vogliamo.
Il congresso sancisce la sconfitta di quel tentativo, solo la FIOM riesce a vincere il congresso nella propria categoria sull’opzione alternativa, FP e i Bancari subiscono una secca sconfitta, nelle altre categorie i risultati della CGIL Che Vogliamo sono piuttosto modesti. Il congresso si conclude con un risultato del 17% al documento alternativo. Le aree più moderate vivono questo risultato con grande delusione, gradualmente quei dirigenti che avevano animato il documento alternativo rientrano in maggioranza.
La FIOM passata nelle mani di Maurizio Landini, ha accantonato ogni velleità di svolgere un ruolo alternativo al gruppo dirigente confederale, riprendendo un dialogo seppur conflittuale con esso, trascinando con se quello che è rimasto della CGIL Che Vogliamo.
Il gruppo dirigente della Fiom, seppure in modo più contraddittorio e meno lineare, sta operando per rientrare nell’alveo del sindacalismo subalterno. Lo hanno rivelato l’accettazione dell’accordo alla Bertone di Grugliasco, le mancate lotte di Termini Imerese o di Grottaminarda, i tentativi di stipulare patti di non belligeranza con Fim e Uilm e, infine, l’assenso fornito al progetto di patto sociale che Cgil-Cisl-Uil stanno discutendo con Confindustria.
Ad oggi non c’è nessuna volontà da parte dei gruppi dirigenti della CGIL Che Vogliamo e tanto meno del gruppo dirigente FIOM di presentare un documento alternativo per il prossimo congresso, l’unica Area programmatica che ha già annunciato la necessità di un documento alternativo è la Rete 28 aprile.
Una scelta importante e coraggiosa ma tutto ciò non basta: occorre un salto di qualità che sia di rottura con le vecchie pratiche delle aree programmatiche; non è più sufficiente per una componente di classe continuare con le lotte all’interno dell’apparato fatte di posizionamenti politici, o, al massimo, di pressione sul gruppo dirigente della Camusso, come ha fatto Landini senza grandi risultati, perché questa pratica è prigioniera del recinto di appartenenza alla CGIL. In molti passaggi la FIOM ha svolto una funzione generale e solo con la messa in conto di una rottura anche organizzativa poteva aprire una opposizione interna non rituale. L’esempio più eclatante di questa contraddizione è emerso con la mobilitazione promossa dalla FIOM contro il modello Marchionne nell’ottobre del 2010. Esisteva un grande consenso che travalicava la sola categoria dei meccanici e si estendeva in larghi settori di lavoratori, con impatto anche sui precari e sugli studenti, ma quella mobilitazione poneva la FIOM di fronte ad un bivio: o mettersi alla testa di un fronte ampio di opposizione e rompere con il gruppo dirigente della CGIL,oppure esercitare una pressione interna.
E’ necessario rifondare una nuova componente di classe in CGIL capace di iniziativa autonoma e diretta nei luoghi di lavoro con una pratica conflittuale basata sulla difesa di classe. Una rete di delegati e quadri sindacali impegnati nella riorganizzazione e ricostruzione di un nuovo movimento operaio combattivo e conflittuale e che sappia agire autonomamente in alleanza con il sindacalismo di base e con i movimenti sociali. E’ d’altra parte questo il compito che si dà la Rete 28 aprile per la prossima fase.
Tutto ciò non significa tralasciare la battaglia interna nel più grande sindacato d’Europa, infatti la CGIL attraverserà delle contraddizioni sempre più dirompenti. La morsa tra crisi economica e necessità di non confliggere con il governo Letta e, soprattutto, aprirà contraddizioni esplosive e la presenza di una tendenza interna di classe potrà essere determinante per uno sbocco politico e sindacale.

Stato del Sindacalismo di base

La nascita di gran parte dei sindacati di base tra la fine degli anni ’80 (essenzialmente nella scuola, nel P.I. e tra i macchinisti fs) e l’inizio degli anni ’90 (dove emergono le prime significative aggregazioni anche nei settori industriali) corrisponde a una spinta di massa all’autorganizzazione di lavoratori e lavoratrici, privati dei più elementari strumenti di democrazia diretta nati nel 1968-70: i Consigli dei delegati.
La rivolta antiburocratica di massa contro la cancellazione della scala mobile e gli accordi di concertazione del 1992-93, che pure costituiscono il momento più propizio per concretizzare la costruzione di un sindacato di classe e di massa su basi democratiche in Italia, fatte salve rare eccezioni non porta tuttavia alla confluenza fra gli ampi settori in rottura con Cgil Cisl Uil e le nuove realtà sindacali di base.
Mentre la burocrazia sindacale – con una forte pressione di Confindustria – risponde con la costituzione di nuovi organismi, le Rsu, ‘dipendenti’ dalle confederazioni e blindate dalla riserva del 33% per gli apparati. Ma soprattutto rafforzando il monopolio burocratico e neocorporativo della rappresentanza, sequestrando tutti i diritti dello Statuto a favore delle organizzazioni ‘firmatarie dei contratti’ (A seguito del referendum del 1995, invece di arrivare a una legge democratica sulla rappresentanza si applica alla lettera ciò che resta dell’articolo 19 parzialmente abrogato…).
E’ bene ricordare questo dato che pesa enormemente su tutte le singole organizzazioni di base e che resta un ostacolo da rimuovere.
Tuttavia le ragioni della debolezza del sindacalismo di base sono anche altre e dipendono dalla scarsa capacità di intercettazione delle periodiche crisi di consenso dei confederali. Mentre il funzionamento interno, al di là delle proclamazioni, risente a volte delle stesse prassi verticistiche giustamente contestate a Cgil Cisl Uil. Ci sono poi state anche scelte di gruppi dirigenti che in alcune occasioni hanno ostacolato processi di unificazione in categorie decisive per la lotta di classe o hanno sovrapposto interessi di sigla a processi reali di autorganizzazione dal basso.
Oggi malgrado la crisi e il grande disagio sociale il sindacalismo di base alla pari delle componenti di sinistra in CGIL è in grande difficoltà, incapace tutti di raccogliere e trasformare in lotta e mobilitazione la rabbia presente in ampi settori di lavoratori, ma cui spesso poi subentra anche elementi di demoralizzazione.
In questo quadro difficile esiste quindi anche una crisi di tutto il sindacalismo di classe, sia esso di base che di quello presente nella CGIL.

4. LA GUERRA SOCIALE CONTINUA

L’accordo sulla produttività sottoscritto in questi mesi trasforma il contratto nazionale di lavoro in una sorta di “contratto cornice” in cui non esiste più alcuna certezza: salari, orari, mansioni possono essere variati a piacimento dal padrone, attraverso deroghe concordate con i sindacati complici. Si potrà guadagnare qualche cosa di più lavorando molto di più: in compenso una detassazione del “premio di supersfruttamento”, garantita dallo stanziamento da parte del governo di 2,1 miliardi di euro.
Dunque, un governo che non trova né vuole trovare i fondi per finanziare la cassa integrazione “in deroga” che ha finora consentito un reddito, seppure da fame, a centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici messi fuori dal processo produttivo dalla crisi e dall’attacco padronale, stanzia oltre 2 miliardi di euro per finanziare le deroghe padronali ai salari, agli orari, agli inquadramenti e ai diritti di tutte e di tutti.
Il supersfruttamento degli occupati, ricattati dall’esistenza di un ampio “esercito industriale di riserva” fatto di una marea crescente di disoccupati, aumenterà, probabilmente sì, la “produttività, mettendo fuori gioco altri lavoratori, che diventeranno “esuberi”, licenziandi, futuri disoccupati, che incrementeranno quell’esercito e il potere ricattatorio dei padroni. Si punta a realizzare quel sogno dei padroni, antitetico al nostro: per loro si tratta di far lavorare più a lungo e più intensamente per poter far lavorare un numero minore di operai, al contrario di quanto noi abbiamo sempre rivendicato: “lavorare meno per lavorare tutte/i”.
Infine, l’accordo ribadisce a favore dei padroni le garanzie sulla “esigibilità” degli accordi e sulle sanzioni per i sindacati recalcitranti già previste dall’accordo interconfederale del 28 giugno 2011.
La Cgil ha deciso di proseguire, sulla strada del patto sociale, la formazione del Governo Letta spinge ancora di più in questa direzione, poteva in sostanza rompere con il palazzo o condividerne la sua crisi. Ha scelto di stare con il palazzo, dimostrando, una volta di più, il pesante grado di subordinazione al PD. La ragione di questa scelta non va ricercata tuttavia nell’esito del voto, né nella drammatica congiuntura economica che falcidia ogni giorno salari,occupazione, aziende. Essa è semplicemente la conseguenza di un’adesione sostanziale a tutte le scelte di Governi e padronato che pure a parole si sono contrastate. Da almeno vent’anni a questa parte si sono assunte cioè tutte le compatibilità e le subordinazioni alla propria autonoma iniziativa a difesa di lavoratori e pensionati: quelle del sistema paese, dell’impresa, del mercato, dell’Europa.
La drammatica crisi di progettualità e rappresentanza è ciò che davvero unisce i gruppi dirigenti del centrosinistra politico e quelli della Cgil, il centrosinistra sociale. Il centrosinistra politico ha bisogno di un centrosinistra sociale che accompagni le dure politiche d’austerità ed il centrosinistra sociale ha bisogno di riconquistare quella legittimazione formale d’organizzazione nel sistema corporativo di relazioni, sia con Confindustria che con Cisl e Uil, persa con la scomparsa della concertazione.
L’obbiettivo dei padroni, del centrosinistra ma anche di parti rilevanti del centrodestra è in realtà uno solo: ricomprendere la Cgil e la Fiom nel nuovo modello neocorporativo.
C’è tuttavia, nelle pieghe di una discussione talvolta incomprensibile, il punto vero, l’obbiettivo strategico per il padronato Italiano. Tutto ruota intorno alla cosiddetta esigibilità degli accordi aziendali,un meccanismo per cui sindacati e lavoratori che sottoscrivono un’intesa non possono più scioperare per tutta la durata della stessa. Un meccanismo del tutto simile a quello imposto da Marchionne prima alla Chrysler negli Usa, poi in Fiat in Italia. Sarebbe la cancellazione cioè di ogni potere contrattuale dei lavoratori a favore di quello corporativo di organizzazione e quindi d’azienda, un altro passo del progressivo autoritarismo che sta riducendo giorno dopo giorno i livelli di democrazia sostanziale in questo paese, riscrivendo così la Costituzione e il diritto di sciopero. Non è accettabile lo scambio democrazia per esigibilità. Il voto dei lavoratori, importantissimo, non può essere la foglia di fico o peggio il viatico per la cancellazione del potere sindacale e in ultima istanza degli stessi lavoratori.

5. I NUOVI MOVIMENTI DI RESISTENZA ALLA CRISI

In questi ultimi anni si sono prodotti straordinari movimenti dalla primavera araba , alla rivoluzione tunisina, a piazza Tahir, e la rivoluzione Egiziana, questi movimenti hanno contagiato anche il vecchio continente.
L’inizio di una nuova fase di lotte sociali dal 2011 è evidente, anche se con caratteristiche e dimensioni differenti nei diversi paesi europei, dove acquista una dimensione di massa o di “ribellione” popolare solo nei paesi periferici mediterranei. In altri paesi, come la Gran Bretagna, la lotta contro le politiche di austerità è significativa rispetto agli standard abituali.
L’attuale ondata di lotte ha un evidente limite, in termini geopolitici, nel non aver ancora raggiunto la Francia, paese fondamentale nella resistanza al neoliberismo fin dal 1995, e l’Italia, dove la situazione sociale non è ancora esplosa .
La logica del ciclo attuale è difensiva di fronte ad un aumento senza precedenti degli attacchi, e si sviluppa in rapporti di forza globali molto sfavorevoli, ma contiene elementi offensivi al suo interno, nel senso di essere dirompente, in grado di destabilizzare il funzionamento routinario delle istituzioni, con una capacità di contrattaccare. Le lotte sociali non hanno raggiunto una dinamica di vittorie che permettano un accumulo di forza crescente . Ci possono essere, tuttavia, alcune possibilità di concrete vittorie parziali in futuro, anche se esiste uno scarto profondo tra l’esplosività della situazione e la traduzione politica, organica di questi movimenti.
La costruzione dei movimenti sociali resta una nostra priorità, la ripresa della mobilitazione sociale può incoraggiare la lotta di classe e modificare i rapporti di forza nei luoghi di lavoro, che in ultima analisi sono i soli che modificano i rapporti di forza complessivi tra le classi.
Senza alcun determinismo, si può prevedere che nella misura in cui le politiche di aggiustamento diventeranno più potenti, insieme all’instabilità dovuta alla crisi, anche questi paesi presto o tardi avranno delle forti resistenze sociali, che avrà modalità proprie e inaspettate, sbloccando la situazione e segnando l’ingresso in una nuova fase.

6. L’ITALIA UN ANOMALIA CONTRADDITTORIA

L’anomalia Italiana è il prodotto di una duplice assenza, una forza politica di classe credibile(i recenti risultati elettorali delle amministrative rendono visibile questo dato) e con una influenza di massa un sindacato di classe, democratico e di massa e non complice delle politiche di austerity.
L’Italia a differenza di tanti paesi europei negli ultimi anni non ha conosciuto movimenti di resistenza di una certa ampiezza. Le potenzialità ci sono e le abbiamo toccate con mano il 15 ottobre del 2011, ma la crisi della sinistra sociale e politica né ha impedito la nascita e lo sviluppo. Su quest’argomento abbiamo scritto tanto e come Sinistra Critica abbiamo sviluppato. una analisi condivisa che qui non riportiamo perché patrimonio di tutti e tutte.
La formazione del Governo Mario Monti rispondeva alle esigenze del capitalismo e della leadership politica europea, perché questi “poteri forti” consideravano Berlusconi e il suo governo inadatti a portare a termine le politiche di austerità e di distruzione dello stato sociale che in tutta Europa sono l’unica “risposta” alla crisi. Mario Monti è l’espressione diretta delle Banche, della Finanza europea e della CONFINDUSTRIA, è una minaccia dichiarata ai diritti sociali, ai lavoratori e alle condizioni di vita dei settori popolari. Dal punto di vista politico si è prodotta “una grande alleanza di unità nazionale”, la borghesia nei momenti di maggiore difficoltà chiama a raccolta intorno al suo programma tutti i partiti siano essi di “centro destro” o di “centro sinistra”, lo abbiamo visto in Germania e lo stanno sperimentando adesso in Grecia e lo stiamo rivedendo nel nostro paese attraverso la formazione del Governo Letta che rappresenta la continuità politica con il passato Governo .
Intorno “alla grande alleanza di Unità nazionale” POLITICA si è costruita anche sul terreno sociale un’altra alleanza quella tra CGIL, CSL e UIL e le principali organizzazioni Padronali. Questa è la differenza sostanziale con gli altri paesi europei, dove i sindacati della CES comunque sono impegnati e/o costretti a promuovere mobilitazioni anti austerity, in Italia invece sono gli strumenti principali della pace sociale. Se a questo aggiungiamo anche l’assenza di un partito di classe degno di questo nome allora iniziamo a capire il motivo dell’assenza dei grandi movimenti sociali e di significative lotte di resistenza.
Malgrado tutto comunque si sono sviluppate delle importanti lotte tra gli operai dell’industria in difesa dell’art. 18, tra gli insegnati, abbiamo avuto anche una prova tecnica di sciopero Europeo nel novembre scorso ed infine registriamo gli ultimi mesi scioperi dei lavoratori della logistica .
Le lotte che si sono sviluppate in alcuni territori e in alcune delle più importanti fabbriche del paese in difesa dell’articolo 18 sono state lasciate sole , prive di uno sbocco generale con grosse responsabilità del gruppo dirigente FIOM, che in assenza di una mobilitazione della CGIL, non ha voluto intraprendere nessuna iniziativa,lasciando nell’isolamento i settori più combattivi e generosi della classe operaia.
Le importanti mobilitazioni dell’autunno merito sopratutto degli studenti e degli insegnanti, ha messo in evidenza che nella scuola c’è stato un vero movimento di massa che si è espresso nella forte unità tra studenti, insegnanti e personale Ata, con un particolare attivismo dei docenti precari che spesso hanno svolto il ruolo di cerniera tra docenti di ruolo e studenti. Quel movimento ha espresso il massimo della rottura proprio con lo sciopero del 14 N. Le massicce mobilitazioni studentesche nelle grandi e medie città ci hanno mostrato le potenzialità di un movimento di massa con epicentro la scuola e con segnali interessanti nel resto del mondo del lavoro in particolare nella sanità, dove abbiamo assistito ad importanti lotte di resistenza, una per tutti è l’esperienza del S. Raffaele di Milano.E’ passato un pò nel dimenticatoio ma il movimento nelle scuole, nato contro l’aumento dell’orario di lavoro a 24 ore per gli insegnanti di medie e superiori, contro il Ddl Aprea e l’espulsione continua di migliaia di precari (anche attraverso il “concorsone”) riesce addirittura ad ottenere una vittoria parziale ma molto importante come il ritiro dell’aumento dell’orario di lavoro, l’accantonamento della contro-riforma Aprea.Il risultato è stata sicuramente il combinato tra la forte mobilitazione del mondo della scuola e le imminenti elezioni politiche che hanno indotto il governo, in particolare il PD, a evitare lo scontro frontale con la propria base elettorale.
Ci siamo dilungati sulla lotta degli insegnati perché in questo settore si è prodotto una importante vittoria e un interessante processo di autorganizzazione dal basso attraverso la costituzione di coordinamenti cittadini a cui le diverse sigle sindacali spesso sono state costrette ad accettare sia le piattaforme che le modalità delle mobilitazioni di piazza.

7. ALCUNE PROPOSTE DI LAVORO SULLA QUESTIONE SINDACALE.

Si avverte fortissima in una fase storica nella quale occorre praticare una politica consapevole di ricostruzione della coscienza, la necessità di una organizzazione sindacale di massa, autonoma, democratica e classista..
Affermiamo con chiarezza che vi è la necessità di costruire quel sindacato di classe e di massa, fondato su basi democratiche, che oggi non esiste.
Certo, i punti da cui partire sono i sindacati di base e l’opposizione di sinistra in Cgil, senza nessuna forzatura, ma occorre anche e soprattutto un nuovo protagonismo della classe lavoratrice. Gli steccati si possono superare e le ricomposizioni produrre solo di fronte a grandi avvenimenti e mobilitazioni di massa che spingono tutti i protagonisti a ripensare posizioni politiche e forme organizzative e che possono permettere l’emergere delle strutture di autoorganizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori.
Ciò è accaduto nel 1968-69, quando furono spazzate vie le commissioni interne e imposti i Consigli di fabbrica; purtroppo allora le capacità di recupero delle burocrazie, combinate con gli estremismi dei gruppi dirigenti della nuova sinistra consentirono prima una progressiva normalizzazione e poi la cancellazione di quegli straordinari strumenti di autorganizzazione operaia.
Non possiamo prevedere quando e come analoghe potenzialità si produrranno. Sarà la concreta dinamica della lotta di classe a produrre le ricomposizioni come nel 1968-69 e una nuova fase di autoorganizzazione di massa.
Possiamo però lavorare per favorire al massimo la costruzione delle resistenze sociali e rafforzare tutte le iniziative critiche e di opposizione contro le scelte dei gruppi dirigenti confederali, sia dentro la CGIL, sostenendo la Rete 28 Aprile, le sue iniziative e quelle unitarie di tutte le sinistre, sia fuori di essa, spingendo verso la convergenza e, laddove possibile, anche a un forte livello di unità d’azione dei e coi sindacati di base.
La presenza e il lavoro nelle strutture della CGIL resta ineludibile; si basa sul fatto che essa raccoglie ampi settori di lavoratori con cui è necessario interloquire e, se possibile, lottare insieme, e costruire una unità di intenti con i quadri più critici e maturi, consapevoli delle necessità di dare risposte adeguate alle esigenze dei lavoratori.
La costruzione di una rete di delegati intersindacale(sinistra CGIL e sindacati di base) su una piattaforma unitaria e di classe, per promuovere lotte e mobilitazioni di resistenza contro le politiche di Austerity diventa quindi un compito prioritario su cui impegnarsi.
Questo è l’orientamento che proponiamo a tutti i compagni che fanno attività sindacale a prescindere dalla sigla sindacale in cui militano.
Questo orientamento di una rete intersindacale dal basso non solo è necessaria, ma è praticabile solo se c’è anche una convergenza in questa direzione delle Organizzazioni del sindacalismo di Base e della Sinistra CGIL, se cioè tutte sostengono questa pratica sindacale di unita d’azione.
E’ evidente che questo progetto di lavoro deve ragionare in termini di coordinamento delle esperienze di resistenza e battaglia anticapitalista in Europa. Sul piano sindacale questo vuol dire riproporre non solo in termini propagandistici l’esigenza dello sciopero generale europeo contro le politiche di austerity ma anche la promozione di coordinamenti di settore, Auto, Sanità, istruzione ecc. sul piano Europeo.

8 PRESENZA NEI POSTI DI LAVORO

Noi consideriamo fondamentale l’autonomia e l’indipendenza del sindacato – e di tutte le organizzazioni di massa – dai padroni, dallo Stato e dai partiti politici (anche dal partito anticapitalista e rivoluzionario!). Anche le strutture sindacali, se realmente indipendenti e seppure in forma elementare e solo sul piano della lotta economica, esprimono le potenzialità di autorganizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici. Ma un partito anticapitalista e comunista, proprio per il suo obiettivo di fase di ricostruire una reale consapevolezza di classe, si batte per conquistare politicamente il massimo di influenza tra le lavoratrici e i lavoratori.
Va perciò sviluppata da parte della nostra organizzazione una iniziativa diretta e continuativa di fronte e/o, meglio, all’interno del massimo numero di posti di lavoro pubblici e privati, difendendo le posizioni di Sinistra Critica non solo sulle problematiche del lavoro, ma, più in generale su tutte le questioni.
E non si tratta solo di propagandare anche tematiche “non lavoristiche”. L’iniziativa di Sinistra Critica di fronte e nei posti di lavoro sulla pace e sulla guerra, sull’ambiente e sull’intreccio tra salute nel posto di lavoro e nel territorio, sui diritti civili e sulle libertà lgbt, sul femminismo e contro il razzismo, va vista anch’essa come contributo alla ricostruzione di una moderna coscienza di classe.
Nei posti di lavoro occorre intervenire con l’obiettivo di costruire collettivi di lavoratori/trici di Sinistra Critica, reclutando le forze migliori e più combattive delle vecchie e delle nuove generazioni. Questo lavoro di radicamento diretto del soggetto politico nei posti di lavoro va fatto in correlazione con la costruzione dell’organizzazione sindacale (confederale o di base) rispettoso della sua autonomia, ma altrettanto attento a garantire il ruolo proprio dell’organizzazione politica.
Non si tratta di mettere in contrapposizione l’intervento come forza politica e il radicamento nelle strutture sindacali, ma di costruire la loro complementarietà.
Occorre dunque dedicare il massimo di attenzione a definire iniziative, piani di lavoro, progetti finalizzati ad accrescere il nostro radicamento nei posti di lavoro e la credibilità delle nostre proposte nelle strutture sindacali.
E’ evidente che il tentativo di costruzione del movimento politico ROSS@ può aiutare le pratiche ricompositive sul versante sindacale e più in generale le lotte sociali .
Il movimento politico anticapitalista e libertario che si cerca di far nascere diventa quindi uno dei terreni di sfida dell’impegno militante, per fare sì che anche nel nostro paese (come già in molti altri d’Europa) l’alternativa non sia solo tra una politica liberista dal volto feroce ed una un po’ più amichevole ma altrettanto distruttiva ma che si presenti sulla scena politica e dei movimenti anche una proposta nettamente antagonista, basata sul conflitto sociale e sulla voglia di trasformazione radicale alternativa alla barbarie capitalista.



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